Gesualdi (L. Tsipras): “Cambiare l’Europa per renderla responsabile”
Con questa intervista speriamo di inaugurare una serie di interviste di rappresentanti di ognuna della maggiori liste che saranno presenti nella scheda elettorale delle prossime elezioni europee.
La prima lotta l’ha sostenuta per raccogliere le firme necessarie, vincendo. Ora la lista «L’altra Europa con Tsipras» si prepara alla battaglia più dura, quella per superare la soglia di sbarramento del 4%. Tra i candidati schierati dal gruppo – a parte i nomi più noti come Moni Ovadia, Barbara Spinelli, Curzio Maltese e Loredana Lipperini – colpisce la presenza di una figura dalla storia personale importante come Francesco Gesualdi, presente nella lista della circoscrizione Italia centrale.
Fondatore con padre Alex Zanotelli della Rete Lilliput, Gesualdi coordina il Centro nuovo modello di sviluppo, una realtà che studia gli squilibri sociali e l’impoverimento globale, indicando strategie quotidiane per contrastare questi fenomeni e promuovere stili di vita improntati alla sobrietà. Prima ancora però “Francuccio” Gesualdi, assieme a suo fratello maggiore Michele (già presidente della provincia di Firenze dal 1995 al 2004) è stato a Barbiana tra gli allievi di don Lorenzo Milani, figura fondamentale per chi vede la scuola come occasione reale di crescita della persona.
Nella nostra conversazione con Gesualdi si passano in rassegna le ragioni di una scelta, la diagnosi di un’Europa che non può continuare così, le proposte di cura collettiva. E, naturalmente, non manca un pensiero al Priore di Barbiana.
Gesualdi, cosa l’ha spinta a dare la sua disponibilità a candidarsi e a farlo proprio con questa lista?
Innanzitutto c’è molto fermento per tutte le questioni europee, specie quelle con ricadute di carattere sociale: penso soprattutto al modo in cui si sta gestendo il debito e l’euro, due grandi temi di cui la gente inizia ad avvertire le ricadute sul piano occupazionale e della qualità della vita. Sento grandi spinte che purtroppo, secondo me, vanno nella direzione sbagliata: quella del populismo sfrenato, nel cercare di attribuire colpe a chi non le ha (come gli immigrati) o di richiamare logiche mercantiliste vecchia maniera che hanno l’unico effetto di inasprire la guerra tra poveri: in questo contesto, mi sembrava importante che si levasse una voce diversa che cercasse di riportare le cose nel giusto binario e di individuare le nostre vie d’uscita da questa situazione, dalla parte delle persone, dei deboli, dei lavoratori, non da quella dei poteri forti.
Parla di debito: qual è il ruolo di questo fenomeno nella dinamica europea?
Da qualche tempo mi occupo in particolare di debito pubblico: mi rendo conto che si sta cercando di replicare da noi lo stesso fenomeno che era stato messo in atto alla fine degli anni ’80 con il Sud del mondo, cioè usare il debito come un grimaldello per accelerare tutti i processi neoliberisti. Questo si traduce nella demolizione quasi totale della “casa comune”, dei servizi collettivi, del patrimonio pubblico e dei beni comuni. Sto facendo riflessioni su come cercare di conciliare sobrietà, economia del limite e garanzia di diritti fondamentali per tutti e, contemporaneamente, piena occupazione (tanto per usare un vocabolario vecchio). Mi rendo sempre più conto di quanto sia importante salvaguardare una dimensione collettiva, quella che si occupa dei diritti: mi rendo conto che si sta cercando di demolirla totalmente, ho creduto si dovesse intervenire per difendere almeno quello che già avevamo, perché quando si è perso tutto è molto più difficile ricostruirlo.
Questa battaglia si poteva condurre solo al di fuori dei partiti?
Diciamo che io nei partiti non ho sentito grandi voci di novità. Intanto, quando parliamo di partiti, oggi purtroppo bisogna distinguere tra quelli che hanno una rappresentanza parlamentare e quelli che non ce l’hanno più: siamo ritornati, in un certo senso, al vecchio tempo della sinistra extraparlamentare. L’arco parlamentare non mi pare stia lanciando una voce diversa per ciò che riguarda l’austerità, l’appiattimento sugli interessi dei creditori senza tenere in alcuna considerazione i diritti della cittadinanza; se proprio si fa uno sforzo, va nella direzione della cosiddetta “crescita”, un mantra su cui si insiste senza sapere se sia possibile e senza valutarne le conseguenze sul piano ambientale.
A parte questo, mi pare che i partiti si siano bruciati: la gente li concepisce sempre di più come istituzioni che puntano al consolidamento del proprio potere, più che a salvaguardare gli interessi della cittadinanza. Qui invece è emerso questo personaggio – Alexis Tsipras – che è anche segretario di Syriza in Grecia, che è stato scelto come candidato per la presidenza della Commissione: il suo programma era abbastanza in linea con ciò che io penso e che molti pensavano nell’ambito della direzione sociale (mi è difficile oggi usare vecchie categorie come “destra” e “sinistra”, che non si sa bene cosa vogliano dire). Mi interessano politiche che siano socialmente e ambientalmente orientate, ecco.
A proposito di vecchie categorie: c’è chi ha battezzato la vostra lista come “comunista”, anche per il colore del simbolo. Lei che ne dice?
Intanto bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa voglia dire “comunista”: secondo me bisognerebbe recuperare il senso etimologico delle parole. “Comunista” viene da “comune”, “comunità”: i primi comunisti intesi come persone che valorizzano la comunità e la solidarietà non sono stati i marxisti, ma i cristiani, come emerge anche dagli Atti degli Apostoli; in quell’esperienza c’è l’esaltazione della dimensione comunitaria, il messaggio di Cristo e tutta la tradizione cristiana vanno in questa direzione. Non possiamo più usare dei vocaboli che ci rappresenterebbero, essenzialmente perché nel corso della storia ne è stato fatto un cattivo uso: parlando di comunismo il pensiero corre solo ai socialismi reali che sono stati un vero disastro da tutti i punti di vista.
Credo che in questo momento si debba recuperare il vero senso dei valori: l’attenzione va posta sui più deboli e sui loro bisogni, sul concetto dei diritti che devono essere garantiti a tutti (indipendentemente dallo stato sociale, dal sesso, dalla religione, dal colore della pelle…) e sulla questione ambientale. In fin dei conti, è il contrapporre all’individualismo spinto del mercato capitalista il concetto della solidarietà e della gratuità: credo sia una grande operazione culturale che dobbiamo essere capaci di fare.
Il sistema del mondo si avvia alla crisi o è già saltato?
Il sistema è al collasso da ogni punto di vista: quello sociale, quello ambientale, ma anche rispetto alla sua capacità di funzionare. Il mantra del seguire il proprio tornaconto perché tutto funzioni dimostra di non funzionare: quando il tornaconto viene perseguito in modo eccessivo spinge le banche ad abbandonare il credito prudenziale verso le attività produttive e a spingersi verso quelle speculative, le scommesse. Se va bene, i guadagni sono alti; se va male, si va tutti verso il baratro del fallimento. Il sistema ha in sé i meccanismi che lo portano a incepparsi di continuo. Serve qualcosa di nuovo: possiamo trovarlo se, da una parte, ci ritroviamo nei valori più importanti che il genere umano ha saputo partorire nella storia e, dall’altra, ci diamo esperienze concrete di organizzazione che vanno in questa direzione, con un taglia-e-cuci del meglio espresso finora.
Esiste o può esistere un’Europa sostenibile?
Penso di sì, ma con alcune precisazioni. La sostenibilità, fossimo persone corrette, dovrebbe essere verso l’ambiente. Il concetto è stato definito: la capacità di provvedere ai nostri bisogni senza compromettere quelli delle generazioni future. Ciò si traduce nell’uso delle risorse con grande parsimonia e nella massima attenzione ai rifiuti che produciamo, che possono alterare i processi naturali, con ricadute sulla nostra possibilità di vivere adeguatamente. Il guaio è che questo sistema cambia il pelo ma non il vizio: ha preteso di aggiungere alla sostenibilità la crescita, volendole perseguire in contemporanea.
Quando chi parla di crescita non si riferisce alla crescita dei servizi di cura alla persona (che non avrebbe impatto sull’ambiente), ma al processo che presuppone l’uso di più risorse e la produzione di più rifiuti. C’è molta ipocrisia in tutto ciò: quell’approccio va abbandonato, a meno che si dica che la crescita è tutt’altro, misurandola non in termini monetari ma con il miglioramento della qualità della vita delle persone, guardando a loro. Eppure oggi il capitalismo è il conflitto tra capitale e vita, ora lo vediamo molto bene: se si incide sull’ambiente, si incide sulla vita. In questo senso, occorre decidere da che parte stiamo.
E un’Europa responsabile c’è?
La responsabilità è strettamente legata alla sostenibilità. La responsabilità e nei confronti dell’ambiente, delle persone, dei diritti, anche delle imprese.
In che senso le imprese?
Le faccio un esempio: pensi al coltan, un minerale che viene dal Congo, zona di guerra. Le bande armate lo usano per avere il denaro per comprare armi, la gente è ridotta in schiavitù; quella materia però serve soprattutto per gli strumenti informatici e tecnologici, ci troviamo il coltan insanguinato nei nostri telefoni e computer. Si potrebbe fermare lo scempio responsabilizzando le imprese, obbligandole alla trasparenza, tracciando tutto il materiale utilizzato per i loro prodotti per escludere quello proveniente da zone di guerra. In Europa qualcosa si muove, ma l’Unione ha detto che il suo provvedimento si limiterà agli importatori e agirà su base volontaristica: questa non è responsabilità.
Abbiamo globalizzato gli affari, non le norme e i diritti. Purtroppo questa Europa, al di là delle grandi enunciazioni iniziali, è diventata soprattutto quella del mercato e dei capitali liberi, appiattita sulle logiche dell’impresa liberista, perdendo ogni connotazione sociale. Credo che sia questa la grande rivoluzione che dobbiamo essere capaci di fare: ricostruire un’Europa non più al servizio delle imprese, ma al servizio dei diritti, delle persone e dell’ambiente. Vanno riviste tutte le politiche, a partire dal debito, fino alla gestione dell’euro e della Banca centrale europea.
Secondo lei l’euro è un male in sé?
No, non lo è. Se devo essere onesto, quando si ventilava l’ipotesi di entrare nell’euro – stavo per dire «si discuteva», ma non si è mai discusso, e questo è il dramma di ciò che sta succedendo: ci sono cambiamenti copernicani senza coinvolgimento popolare e, in fondo, nemmeno dei parlamenti, che ratificano i trattati senza discuterli, come è accaduto con l’istituzione del WTO – allora ero contrario a quell’istituto, perché si stavano spogliando gli stati di una leva importante come la politica monetaria. Ce l’eravamo vista scippare, nessuno disse niente e alla fine andò anche peggio, visto che l’Europa iniziò una politica monetaria della peggior specie. Oggi si tratta di capire che cosa facciamo: le monete di per sé non sono buone o cattive, dipende da come sono governate.
Cosa non va nella gestione della moneta di oggi?
Ora c’è una logica liberista, che ha l’unico obiettivo di bloccare l’inflazione, dunque la stabilità dei prezzi, per essere competitivi: alla base c’è il fatto che le imprese, nella loro logica, devono guadagnare, espandere il mercato e lo fanno contenendo i costi… lo impariamo tutti dalle elementari coi problemini su ricavi, guadagni e costi, come se tutti dovessimo fare i mercanti. Oggi tutti invocano le Riforme, senza specificare quali, quando alla fine significa contenere la spesa e soprattutto contenere il costo del lavoro.
Quella del servizio alla competitività è l’impostazione che si è data all’euro: la Germania si è attrezzata meglio di tutti per essere competitiva sui mercati extraeuropei e anche in quello interno, ce ne siamo accorti solo con la crisi. Oggi tutti sbraitano contro la Germania, ma c’è piuttosto da sbraitare contro un’Europa che non fa il suo lavoro: tentare di compensare le differenze per evitare la sopraffazione dei paesi più forti su quelli più deboli. Questo dovrebbe fare l’Europa come governo centrale: ora che abbiamo l’euro possiamo anche interpretarlo come un ulteriore mattone per l’unione dei popoli europei (benché l’Europa non sia stata creata per questo). Cerchiamo di recuperare la situazione imponendo una serie di misure che puntino a colmare le differenze, così da ridurre i margini di competizione ed evitare che la gestione della moneta si trasformi in una guerra tra poveri, tra lavoratori che fanno a gara a chi abbassa di più il costo del lavoro.
Avrebbe senso uscire dall’euro?
Cambiare moneta non è una passeggiata: lo dicono anche gli economisti, c’è il rischio di grandi svalutazioni che ci fanno recuperare competitività in una logica mercantile, ma svalutano i nostri risparmi e fanno aumentare ciò che viene dall’estero. Meglio allora cambiare la politica sociale dell’Europa: non tornare a una lira nostra da svalutare al bisogno, ma svalutare invece la competitività allineando le situazioni presenti in Europa, facendo sì che esistano diritti uguali per tutti e un salario minimo garantito a livello europeo, così come una politica di oneri sociali unica per tutta l’Europa.
La lista Tsipras rischia di raccogliere i voti del Pd che non ama Renzi?
Non lo so: penso che prima di tutto prenderà i voti della società civile che non riesce più a trovare una propria rappresentanza e che in gran parte non va più a votare. Nel tasso di astensionismo ci sono i qualunquisti e i disinteressati, ma anche varie persone sensibili che hanno cercato di fare politica dal basso attraverso impegni e scelte quotidiane. Il fatto che nelle nostre liste ci siano anche soggetti come me che non hanno mai avuto una militanza partitica o istituzionale, lavorando molto però sul quotidiano, credo sia un segnale importante per ridare fiducia a quell’elettorato.
Poi può darsi che ci siano pure quelli che non si sentono rappresentati da Renzi, ma facessimo una radiografia di queste persone forse scopriremmo che sono molto vicine al nostro mondo. Del resto, mi lasci dire che per non sentirsi rappresentati da Renzi bisogna aver conservato un pochino di pensiero critico: l’elemento che oggi, nell’epoca del pensiero breve e degli annunci, sta mancando di più. Credo che a sostenerci ci sia un mondo variegato: potrei dire che è la parte più responsabile della società, che ha sempre concepito la politica come una partecipazione permanente che passa attraverso le scelte quotidiane, per cercare di trasformare la società agendo dalla propria posizione.
Da ultimo, quanto di don Lorenzo Milani c’è in questa sua candidatura?
Guardi, questa domanda non me la sono posta: mi sono sempre chiesto – perché molti me l’hanno chiesto – quanto c’è di don Milani nel mio impegno, che è un impegno di tutta la vita, oserei dire. Da questo punto di vista, credo che ci sia molto, non solo per l’impegno con gli altri per riappropriarci del nostro futuro: a Barbiana c’era l’incitamento costante a essere protagonisti della propria vita, che si costruisce insieme agli altri. In questo senso c’era anche un incitamento alla politica, con quella bella frase contenuta in Lettera a una professoressa: «Uscire da soli dai problemi è l’avarizia, uscirne insieme è la politica». Queste parole sono scolpite in me, mi hanno ispirato sempre l’impegno personale, cercando di coniugare tutti i livelli e dimensioni.
Non mi ero mai esposto su una rappresentanza in ambito istituzionale, ma stavolta l’ho accettato in modo abbastanza spontaneo e con slancio: ho visto in questa occasione un’opportunità di continuare a disseminare idee che mi sono sempre state care e mi sembrava fosse un modo per dare speranza al nostro popolo, responsabile ma sfiduciato. Le motivazioni sono queste; il Milani in filigrana c’è sempre, la scuola che ci ha fatto è stata sempre di grande partecipazione, con il tentativo di risolvere i problemi insieme agli altri.