La sedia della felicità, la fiaba grottesca del Nord Est di Mazzacurati
La sedia della felicità: tre personaggi improbabili e bizzarramente assortiti, uniti da un unico obiettivo: recuperare un tesoro che garantirà loro la ricchezza … e una svolta nella vita. Questa, in breve, la storia al centro de La sedia della felicità l’ultimo film di Carlo Mazzacurati, onirico e visionario regista padovano scomparso lo scorso gennaio a 58 anni.
Bruna (Isabella Ragonese) è un’estetista che si divide tra difficoltà economiche, e una relazione incrinata dal tradimento del fidanzato. Pressata da un avido creditore (Natalino Balasso), mentre lima le unghie in carcere a una cliente, Norma Pecche (Katia Ricciarelli), madre di un noto criminale veneto, riceve da questa una confidenza in punto di morte. La donna le rivela, ascoltata anche dal bislacco Padre Weiner (Giuseppe Battiston), di aver nascosto alcuni gioielli in una sedia del suo salotto. Convinta che questa sia l’agognata occasione di riscatto offertale dal caso, Bruna decide di recuperare la famigerata sedia, e coinvolge nella convulsa ricerca Dino (Valerio Mastandrea), il tatuatore della porta accanto, separato e come lei gravato da problemi economici.
I due, dopo aver scoperto che esistono ben otto sedie identiche vendute precedentemente all’asta, si mettono sulle tracce dei relativi acquirenti per ritrovare “la” sedia. Girando in lungo e in largo per il Veneto, inciampano così in una folta galleria di umanità, tra maghi (Raul Cremona), medium sciroccate (Milena Vukotic) e televenditori ciarlatani (Silvio Orlando e Fabrizio Bentivoglio). Il duo diventa poi trio quando si aggrega anche l’inizialmente scettico Padre Weiner. Riusciranno i nostri eroi (?) a portare a termine l’ambiziosa impresa?
La sedia della felicità, è stato definito da alcuni il “testamento spirituale” di Carlo Mazzacurati, ma, se proprio si vuole trovare una qualche “etichetta”, probabilmente, per essere fedeli allo spirito del suo autore, sarebbe più preciso definirla qualcosa a metà tra un regalo e una burla gioiosa. «Lui sorrideva tanto sul set, lo provano le tante foto che abbiano realizzato durante la lavorazione», ha dichiarato Valerio Mastandrea, che per la prima volta lavorava con il regista padovano. Così anche Isabella Ragonese, piacevolmente colpita dal clima che si respirava sul set, ha sottolineato la profonda sintonia che aveva unito l’intera squadra di lavoro riflettendosi poi nel “confezionamento” di una storia sarcastica e fiabesca al tempo stesso. Una sorta di ritratto in scala dei tempi odierni, e del Veneto.
A proposito del film hanno scritto: «con grande tenerezza e umana pietà, Mazzacurati osserva la regione che ha fatto da sfondo a diversi suoi film (dal primo, Notte italiana, a uno dei più riusciti, La giusta distanza) e ne osserva il disfacimento materiale ma soprattutto morale, senza citare i capannoni abbandonati, i centri commerciali sempre più dominanti o l’orgogliosa rivendicazione autonomistica di fronte alla crisi, ma guardando alla rincorsa al denaro purchessia e al benessere perduto come ultimo e solo valore superstite. Non ci sono però pesantezze sociologiche in un film che fa della leggerezza (che non è mai superficialità, sia ben chiaro) quasi la sua ragion d’essere, quasi a dire: “I tempi sono già abbastanza tetri, proviamo a sorridere di quel che siamo diventati, osservandoci con tenerezza, senza censure ma anche senza condanne preventive”. Un film fatto con un sorriso e che fa sorridere, insomma, riuscendo anche a fare un po’ pensare. E Mazzacurati, allora, ci ha lasciato con un messaggio, che, in fondo, non si nega alla speranza.
Creando un’atmosfera poetica e grottesca, La sedia della felicità decolla speditamente nella seconda parte, anche grazie a scene quali la televendita delle opere del montanaro Lievore Bepin, autore di pregevoli acrilici come El me cagneto o La vacca pianze («puoi stringere sulle lacrime della vacca?»). Il film va quindi a segno, e in tal senso un ruolo decisivo gioca il cast di attori, incisivo e convincente, a partire dal duo Mastandrea-Ragonese, che offre al pubblico un delicato mix di ironia e malinconia, passando per Battiston, capace di modulare con padronanza e intelligenza il registro del grottesco. I camei di Citran, Orlando e Bentivoglio conferiscono inoltre alla storia maggior spessore.
Un film che piacerà a quanti amano lasciarsi andare, perlomeno al cinema, allo stupore fanciullesco e fiducioso, grazie a una storia popolata da “antieroi che rendono straordinario l’ordinario, in cui la gentilezza vince sull’aggressività”.
Francesca Garrisi