Pd: Non c’è uno straccio di politica, a sinistra
Palazzo Chigi ha di recente smentito la possibilità di una modifica alla riforma istituzionale (già approvata nell’ordine da Palazzo Madama e Montecitorio) tesa a ristabilire l’elettività del Senato.
Per quanto questa ipotesi possa apparire improbabile, anche dal punto di vista strettamente legislativo, è innegabile che all’interno del Pd si sia aperto un nuovo fronte di dialogo legato alla riforma della nostra carta costituzionale.
Qualche settimana in una nostra Settimana Politica del Termometro Politico avevamo parlato di come fosse sbagliato politicamente, da parte della minoranza Pd, cristallizzarsi sulla riforma della legge elettorale: ulteriori modifiche all’Italicum avrebbe riportato la legge in Senato, riattribuendo alla pattuglia di senatori forzisti una centralità politica smarrita a seguito dell’elezione di Sergio Mattarella sul colle più alto. Ciò avrebbe comportato ad un grosso paradosso: quell’area del Pd più ostile al cosiddetto “Patto del Nazareno” avrebbe spinto, attraverso un’ulteriore revisione della legge elettorale, quello stesso patto a resuscitare. Al tempo stesso, sempre nell’editoriale di cui sopra, sottolineavo il diverso iter legislativo legato alle modifiche costituzionali ed alla possibilità da parte della minoranza dem di concentrarsi su una battaglia di questo tipo. Occorrono due letture per le modifiche alla carta costituzionale. Un passaggio ulteriore in Senato è dunque obbligatorio e non c’è tattica parlamentare che tenga su questo fronte.
In questi giorni, indipendentemente dal tema dell’elezione o meno dei Senatori, stiamo assistendo ad un quadro in cui Renzi “consiglia” come muoversi alla sua minoranza: blindo l’Italicum, ma se volete fate una battaglia sulle riforme. E’ come se il Segretario del Pd indicasse una via che i soggetti interessati a percorrere il cammino avrebbero dovuto individuare senza aiuti dall’esterno.
Corollario di questa dinamica politica è la tendenza da parte del premier di scegliersi l’interlocutore sulle riforme. Si tratta di una caratteristica da sempre presente nell’agone politico (vi ricordate quando Berlusconi all’inizio del suo quarto esecutivo centralizzava l’attenzione su Di Pietro, dipinto come il suo unico vero oppositore?) e che anche in questo caso il fiorentino sta sfruttando: la minoranza non sa che fare, la indirizzo io sulla retta via giocando alla divisione ulteriore di un fronte che già da unito non appare come una seria minaccia alla mia leadership.
Pd, sinistra senza politica
Alla luce di questo affresco, una domanda sorge spontanea: come mai questa mancanza di visione e questa scarsa lungimiranza da parte dell’opposizione interna a Renzi? Scarsa lungimiranza sulle cose che servono al paese si possono pure capire (sic), ma in questo frangente è lo stesso destino di quella pattuglia politica a rischiare di essere spazzata via.
Per cercare di dare una risposta a questo domanda è utile focalizzarsi sul ruolo che ha avuto Vasco Errani negli ultimi mesi come ambasciatore “bersaniano” presso il Giglio Magico: in un colloquio con un noto quotidiano nazionale Matteo Renzi avrebbe dichiarato di essere ideologicamente a favore di un Senato elettivo (seppur in un ottica di bicameralismo imperfetto). Non si tratta di una boutade, ma di un elogio al compromesso. Lo stesso Renzi ha più volte dichiarato di essere a favore delle preferenze, ma di averne in parte rinunciato per trovare una quadra sulla legge elettorale con Forza Italia. La cosa interessante sta nel fatto che a quanto pare è stato lo stesso Errani (e quindi per certi versi Bersani) a scagliarsi contro una proposta di un Senato elettivo.
Della serie: la sinistra politica non ha mai avuto, se escludiamo alcune emanazioni locali, la cultura del voto di preferenza. Ma oggi sposa questa causa in funzione antirenziana. La sinistra politica (o comunque quell’area del Pd che sostiene di rifarsi maggiormente a quella tradizione) al tempo stesso si è scagliata in passato contro un Senato elettivo. Ma ora si dice possibilista e chiede un dibattito teso a modificare la riforma del bicameralismo.
Insomma, cosa se ne deduce? Che con la fine delle ideologie (e lasciatemelo dire: anche con la conclusione di una certa passionalità un tempo molto in voga nell’azione politica) ormai qualsiasi mossa è animata dalla tattica. Negli atteggiamenti dei vari Gotor, Bersani e compagnia non c’è uno straccio di politica. Ma solo il desiderio di individuare l’arma più affilata con cui colpire il Capo del Governo nonché segretario del proprio partito. In sfregio, ovviamente, al famoso centralismo democratico.
Un desolante quadro in cui non solo non si fa più politica. Ma non la si segue nemmeno.