Burundi: un paese sull’orlo del disastro
Scontri, morti, arresti in Burundi per il solito problema: un presidente rimasto attaccato al trono che non ne vuole saperne di lasciare il potere nonostante la costituzione sia chiarissima: nessuno può fare due mandati presidenziali.
Il Burundi di Nkurunziza
Il presidente si chiama Pierre Nkurunziza ed è al potere dal 2005 quando ad Arusha, in Tanzania, furono siglati gli accordi di pace che mettevano fine ad una guerra civile scoppiata nel lontano 1993.
Proprio in quella occasione veniva varata la costituzione che ora il presidente uscente non vuole rispettare. Nkurunziza e il suo entourage affermano che il suo primo mandato non fu il frutto di quella costituzione ma scaturiva dalla guerra civile e da una elezione a suffragio universale realizzata prima ancora che la costituzione entrasse in vigore. Una motivazione debole che però offre a Nkurunziza un appiglio che lui non si è lasciato sfuggire.
Ciò che fa temere una nuova guerra civile è il fatto che negli scontri di piazza si è visto che esercito e polizia sono divisi. Alcuni hanno difeso e sostenuto Nkurunziza, altri si sono rifiutati di intervenire sotto gli applausi dei manifestanti.
Una constatazione, questa, che mette a nudo l’incoscienza del presidente uscente e della lobby di potere che lo sostiene che, evidentemente, non poteva non sapere di dover fare i conti con forti defezioni e, di conseguenza, di non poter risolvere la questione solo con la repressione.
Repressione che, peraltro, è stata fortissima. Sono state interrotte le trasmissioni delle tre principali radio del paese, compresa Radio Publique Africane che trasmetteva in diretta le manifestazioni di piazza.
L’opposizione ha già dichiarato altre manifestazioni di piazza e dunque la situazione, salvo interventi della diplomazia internazionale o colpi di scena, non potrà che peggiorare. Non rimarrà che seguire gli eventi. Per ora vi propongo alcune riflessioni per inquadrare questa ennesima crisi africana.
Una nuova guerra civile?
Il Burundi è un piccolo paese, gemello del vicino Ruanda per estensione, collocazione e composizione etnica: 85 per cento hutu e 15 per cento tutsi. Ma questa crisi, almeno alle origini, non ha nulla a che vedere con le etnie (nulla vieta, però, che i politici che si confrontano decidano, se lo riterranno conveniente, di usare e sfruttare le differenze etniche).
Lo scontro è tutto per il potere. Il Burundi, come detto, è piccolo e senza risorse di rilievo ma è un crocevia di traffici incredibilmente lucrosi. Stare al potere e sfruttarli o richiedere “servizi” per lasciarli compiere è estremamente produttivo. Si tratta di traffici in buona parte legati allo sfruttamento del contrabbando di materie prime proveninenti dalla vicina Repubblica Democratica del Congo.
Nkurunziza ha dietro un entourage di personaggi che non vogliono lasciarsi sfuggire l’occasione. Qualcosa di questo sottobosco di trafficanti è emerso recentemente con l’inchiesta sulle tre suore italiane uccise a Bujumbura. Per quel fatto si è tentato di accusare anche missionari italiani per intorpidire le acque. Le accuse si sono rivelate del tutto infondate e rimangono invece le responsabilità di una classe politica folle e incosciente che in queste ore non sta esitando a gettare il paese nel caos e nella violenza pur di mantenere il proprio potere.