Se in gioco non ci fosse la libertà di parola di milioni di cittadini italiani, verrebbe voglia di seppellire l’ennesimo tentativo del Parlamento di obbligare anche i blogger alla rettifica entro 48 ore, a pena di abnormi sanzioni pecuniarie, con la più fragorosa e sincera delle risate o, più semplicemente, di condannare l’iniziativa all’indifferenza ed all’oblio che, probabilmente merita.
Ma, purtroppo, il groviglio di emendamenti, esperimenti ingegneristico-normativi da azzeccagarbugli [parola di avvocato,ndr], ritocchi e ripensamenti che continuano a segnare i lavori della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati sul disegno di legge in materia di diffamazione minaccia, ancora una volta, quasi dieci dopo la prima, l’utilizzo di Internet come primo mezzo di comunicazione di massa effettivamente democratico perché a disposizione di tutti o, almeno, dei più.
Ed allora non resta che dare ancora una volta la notizia, data già decine di volte su questo blog ed altrove addirittura prima che questo giornale nascesse: il Parlamento sembra intenzionato adestendere l’obbligo di rettifica che la legge sulla stampa datata 1948 – quando i giornali erano solo murari o di carta – all’intera blogosfera, obbligando le decine di migliaia di blogger italiani a procedere alla rettifica entro 48 ore dalla richiesta di chi dovesse assumere di sentirsi diffamato da ciò che è stato scritto e pubblicato a pena, anche semplicemente in caso di ritardo, di sanzioni pecuniarie che potrebbero arrivare fino a 50 mila euro.
Sembra incredibile che quasi due lustri di dibattito parlamentare ed extra parlamentare sul tema non siano stati sufficienti a convincere i legislatori che, frattanto, si sono avvicendati sulle poltrone di Montecitorio, del carico liberticida che questa posizione – apparentemente equa, naturale o, persino, scontata – porta con sé.
Ha dell’incredibile sentire ripetere, a tanti anni di distanza dalla prima volta, che in fondo non vi sarebbe ragione per sottrarre un blogger – potenzialmente letto dallo stesso pubblico di un giornale – dal rispetto dei medesimi obblighi imposti alla più blasonata delle testata giornalistiche.
Eppure è così.
Gli argomenti sul tavolo sono esattamente gli stessi che animano il dibattito dalla metà del primo decennio del 2000 ad oggi.
Un dibattito che ha attraversato quelle che per l’informazione online rappresentano autentiche ere geologiche nel corso delle quali le dinamiche di circolazione dell’informazione sono state profondamente trasformate decine di volte senza, peraltro, raggiungere un assetto che possa definirsi stabile o destinato a durare nel tempo.
Eravamo, quando questo dibattito è iniziato, in un’era nella quale la comunità dei blogger italiani era rappresentata da un nugolo di persone che si conoscevano per nome e che provenivano, nella più parte dei casi, dal mondo del giornalismo e dell’informazione.
Siamo passati per una stagione nella quale i blogger in Italia – nonostante la nostra atavica arretratezza in termini di diffusione di Internet – sono decine di migliaia, provengono da contesti ed ambienti straordinariamente diversi, scrivono per le più disparate ragioni e, in taluni casi, sono approdati sulle pagine dei grandi quotidiani blasonati.
Siamo arrivati – ma è solo l’ennesima fase di passaggio – in un’epoca nella quale 450 caratteri scritti da un cantautore di fama come Gianni Morandi su un social network scatenano una tempesta di informazione nella quale decine di migliaia di cittadini italiani, nello spazio di una manciata di ore, pubblicano su una piattaforma, accessibile ad oltre un miliardo e trecento milioni di persone, commenti, notizie ed opinioni su un argomento di straordinaria sensibilità e complessità come l’immigrazione in Italia.
E siamo nei giorni del debutto, ancora timido ma già straordinariamente significativo, di un nuovo fenomeno di informazione di massa abilitato da un app come Periscope che consente a qualsiasi ragazzino con uno smartphone in tasca di raccontare quello che pensa, in tempo reale e senza alcun filtro, a centinaia di milioni di persone che, egualmente in tempo reale, possono commentare il suo racconto o approvarlo lanciando cuoricini colorati sullo schermo dei propri device.
E’ semplicemente paradossale che l’idea di obbligare un blogger alla rettifica prevista per i giornali di carta e, forse inutile persino per i giornali in digitale, abbia resistito con tanta inusitata pervicacia a così tanti straordinari cambiamenti epocali e rappresenti ancora oggi un argomento, serio, di discussione parlamentare nell’ambito dei lavori che avrebbero dovuto condurre il Parlamento a compiere, finalmente, una scelta di campo, stabilendo, una volta e per tutte, che chi offende la reputazione di qualcun altro, se ha sbagliato lo risarcisce ma non rischia né il carcere, né sanzioni pecuniarie da salasso che minacciano – specie se non ha alle spalle un grande giornale – di mettere in discussione la sua vita presente e futura più di quanto, probabilmente, ha, sin qui, fatto il rischio di finire in galera.
E’ difficile storditi da un simile paradosso, raccogliere le idee e cercare, un’ennesima volta, la forza di raccontare a chi, in Parlamento, abbia voglia di leggere perché l’idea di obbligare un blogger alla rettifica, entro 48 ore a pena di una sanzione salata persino per un piccolo editore è sbagliata, inutile, inopportunae, almeno, liberticida nelle conseguenze se non anche nelle intenzioni.
Vien voglia di limitarsi ad un link alle decine di articoli, post e commenti dei tanti che, negli ultimi anni, hanno consumato neuroni e polpastrelli nel tentativo, sin qui vano, di aiutare chi siede in Parlamento a capire.
Ma la libertà di parola è un bene democraticamente troppo importante per lasciarsi prendere dalla pigrizia. Vale certamente la pena di proporre – con l’auspicio che sia l’ultima volta – un bignami degli argomenti per i quali è necessario allontanare, ancora una volta, lo spettro dell’obbligo di rettifica per i blog dalla legge sulla diffamazione.
Il punto di partenza è che non esiste nell’ordinamento né altroveuna definizione di blog, né di blogger mentre ne esistono di chiare ed inequivocabili per le testate giornalistiche, i giornalisti, gli editori ed i direttori responsabili. Tanto basterebbe per rendersi conto che non si può imporre un obbligo e prevedere delle sanzioni per l’ipotesi di sua violazione in relazione ad una fattispecie evanescente, non perimetrata, né perimetrabile, che ha per protagonisti categorie di soggetti egualmente indefiniti ed indefinibili.
Che senso avrebbe imporre un obbligo di rettifica in capo ai blogger in relazione ai contenuti pubblicati sui loro blog, in un contesto nel quale, parole, informazioni ed opinioni circolano in tempo reale, con l’efficacia del mezzo audiovisivo, attraverso Periscope, o condensate nei centoquaranta caratteri di un tweet o, ancora, in post, sulle pagine rivolte ad oltre un miliardo di persone di Facebook?
Ma questa è solo una considerazione di buon senso ed opportunità, figlia del tempo trascorso dalla prima volta che si è affacciata in Parlamento l’idea di obbligare i blogger alla rettifica. Ben più serie sono le considerazioni di diritto, equità e democrazia. Sono le stesse di sempre ma val la pena ricordarle una volta di più.
La prima è che un blog – qualsiasi cosa si intenda definire con tale espressione sin qui mai entrata in una legge italiana – non è una testata giornalistica, non ha alle spalle un editore, una redazione, un direttore responsabile, né un ufficio legale che sia in grado di supportare il blogger – chiunque si voglia indicare con tale espressione – nel valutare se e quanto fondata sia la richiesta di chi assume di essere stato diffamato da talune affermazioni.
La conseguenza di tale obiettiva differenza tra un blog ed una testata telematica è di disarmante intuitività. Davanti ad una richiesta di rettifica una testata telematica ne valuta la fondatezza e poi sceglie consapevolmente se accettare il rischio di una sanzione che è comunque parte integrante del suo modello di business o accogliere la richiesta di rettifica laddove ritenga che il giornalista abbia sbagliato davvero.
Davanti alla stessa richiesta di rettifica, viceversa, il blogger si ritrova ad affrontare un dilemma la cui soluzione appare si troppo facile e scontata: difendere la propria libertà di parola davanti ad una richiesta che pure appaia infondata e correre il rischio di pagare una sanzione più salata di quanto guadagnerà mai scrivendo online o, invece, rimuovere quel post che non gli frutterà mai altro che soddisfazioni personali ma porsi al riparo dal rischio di un salasso economico che non può permettersi.
E’ questa la differenza fondamentale nell’applicare una stessa regola a due situazioni sensibilmente diverse: in un caso, la rettifica, ammesso che serva davvero, è un incentivo a fare buona informazione mentre nell’altro caso diventa – o rischia di diventare – solo uno strumento nelle mani dei più forti per imporre il proprio pensiero e la propria opinione su quelli di chi non può permettersi di pagare multe e sanzioni.
Tanto dovrebbe bastare, ad uno Stato che abbia a cuore la libertà di parola dei suoi cittadini, per non prendere neppure in considerazione l’idea di fornire ai più ricchi e potenti un mezzo di silenziosa minaccia su chi, attraverso la rete, magari utilizza le parole come strumento di partecipazione democratica.
E vi è poi un’altra ragione che rende straordinariamente diverse le due fattispecie.
Quella che una volta si chiamava “stampa” – e che la legge continua a chiamare così – vede bilanciate le sue responsabilità ed i suoi obblighi con una rete importante di garanzie persino di rango costituzionale mentre blog e blogger, se l’obbligo di rettifica diventasse legge, sarebbero trattati come “la stampa” in fatto di obblighi e responsabilità ma continuerebbero a essere figli di un diritto minore in fatto di garanzie.
Se davvero “stampa” e “blog” – qualsiasi cosa vogliano dire queste due espressioni nel 2015 – devono essere trattati allo stesso modo sul versante delle responsabilità, allora sarebbe il caso che lo fossero anche sul versante delle garanzie e dei diritti, ivi inclusi quelli di autore che consentono agli editori – sebbene con le difficoltà del momento – di fare impresa facendo informazione mentre non permettono altrettanto ad un blogger.
Per dirla con le parole del titolo del libro da poco uscito in libreria, scritto con Alessandro Gilioli, sembra che, ancora una volta, il Parlamento italiano stia dicendo a milioni di cittadini: “Meglio se taci”.