C’è una categoria sventurata tra i giornalisti, quella dei “coccodrillisti”: quelli che preparano e aggiornano i “coccodrilli” (gli articoli bioagiografici sulle celebrità che devono essere pronti quando queste passano a miglior vita) o, peggio, con serialità piangono lacrime d’inchiostro per lamentare l’assenza dei prematuramente scomparsi, perché «ci vorrebbero loro, chissà cosa avrebbero detto» in tempi bui come questi.
Ci si perdoni, però, se per una volta sentiamo il bisogno di condividere un’assenza – di quelle davvero pesanti, perché riguarda una testa pensante – e, insieme a questa, un’occasione per avvertirla un po’ meno. L’assenza pensante è quella di Edmondo Berselli, una persona cui le etichette di norma ricevute di «giornalista» e «scrittore» andavano (anzi, vanno) davvero strette.
Portatore sanissimo di intelligenza e ironia, a volte tagliente e spietato quanto bastava, Berselli nelle sue analisi e nei suoi libri ha saputo narrare un paese complesso, terribilmente bravo a complicarsi l’esistenza e l’apparenza e che – in fondo – non chiude mai i conti col suo passato. Lo ha mostrato molto bene l’Edmondo da Modena (anzi, da Campogalliano) nel suo libro simbolo, Post Italiani, in cui l’evoluzione/involuzione di un popolo intero si illustra con ironico disincanto riga dopo riga.
Ora, per chi si sente orfano di Berselli (scomparso quattro anni fa), per chi era assente e vuole conoscerlo, può essere sufficiente accendere il televisore in seconda serata. Per sei giovedì a partire da stasera, infatti, Rai3 trasmette Quel gran pezzo dell’Italia, un programma realizzato con le idee che Berselli aveva disseminato nei suoi scritti e con alcuni appunti che aspettavano solo di essere tradotti in un progetto.
A muovere tutto è stata la moglie, Marzia Barbieri, che partendo da quegli appunti rimasti sulla carta ha convocato la squadra che aveva già affiancato il marito nelle precedenti avventure televisive per la Rai («Edmondo aveva iniziato tardi a fare televisione – ricorda la Barbieri – ma aveva scoperto che si divertiva»). Dal lavoro con Romano Frassa e Andrea Quartarone erano usciti i cicli Giù al Nord, Su al Sud e Un paese chiamato Po, in cui lo stesso Berselli si era messo in gioco come narratore in lungo e in largo per il Belpaese, portando davanti a una telecamera personaggi, luoghi e ricordi che avevano trovato cittadinanza nei suoi libri e dando loro un inatteso filo logico.
Il risultato di questo omaggio è appunto Quel gran pezzo dell’Italia, che vede pienamente integrato nella squadra un altro amico di Edmondo Berselli, Riccardo Bocca. Il critico televisivo dell’Espresso si mette in gioco direttamente come conduttore e voce guida: «Era già tutto scritto – dichiara all’inizio del ciclo – ma ci eravamo distratti», preparando l’ascoltatore a ritrovare tante parti di oggi in parole profetiche scritte anche oltre dieci anni fa. Il programma, infatti, non guarda al passato (come sarebbe fin troppo facile fare), ma va verso il futuro, invitando a prevedere come certe cose andranno e a intervenire o a corazzarsi per tempo, se del caso.
Per arrivare in tutte le case, però, qualcuno doveva credere al progetto: per fortuna lo ha fatto Rai3, attraverso il direttore Andrea Vianello, cui si sono rivolti gli autori del programma. «Emerge chiaramente che la forza principale del bersellismo è essere profondi e dire cose serie senza prendersi sul serio»: anche questo ha convinto Vianello a scommettere sull’idea e a dedicare sei seconde serate a un viaggio negli Italiani difficilmente ripetibile. Sempre avendo l’impressione (o la speranza, chissà) che Edmondo Berselli spunti da qualche angolo del teleschermo..
Il viaggio negli Italiani, tra l’altro, parte dalla sua puntata più ardita e, insieme, più “minata”: quella dei Venerati maestri, lo stesso titolo del volume allegramente dissacrante uscito nel 2006, «il primo libro comico sulla cultura italiana». Nessuno degli «intelligenti d’Itali», veri o presunti (ma sempre molto celebrati), può sentirsi davvero al sicuro dalle frecciate berselliane narrate da Bocca.
Si inizia subito, non a caso, da uno dei maggiori venerati maestri, Roberto Benigni, presente con la sua Marcia degli incazzati: l’interprete del Cioni di Ondalibera è ancora nella fase un po’ provinciale, la santità intellettuale con contorno dantesco è ancora lontana, ma il racconto non poteva iniziare che da lui. Le prime pagine di Venerati maestri, lette da Gioele Dix, non sono che la scusa, il segnale di via per una carrellata potenzialmente infinita di “venerati maestri”, che esercitano il loro ruolo spesso con fierezza, nel bene e (soprattutto) nel male, e per questo finiscono puntualmente infilzati dall’ironia tagliente berselliana quando si prendono troppo sul serio.
È questa la premessa necessaria per prepararsi ad affrontare una sfilata consistente di aspiranti o compiuti venerati maestri, intoccabili per molti e insopportabili per altri: si va da Benigni (appunto) alla Tamaro, dalla Fallaci a Franco Battiato, fino ad Alessandro Baricco (giovanissimo e non ancora brizzolato, quelle immagini arrivano una mezz’oretta dopo).
Che c’è di male, in fondo, ad avere raggiunto lo stadio del “venerato maestro”? In sé nulla, ma il vero problema è il percorso che ha condotto lì. Perché è noto il paradigma di Alberto Arbasino, per cui è quasi impossibile arrivare alla fase finale, magari dopo essere partiti da quella di «bella promessa», senza essere passati dallo stato di «solito stronxo». E infatti, nel bel mezzo del programma, appare proprio lui, Arbasino, davanti a un altro venerato maestro dei nostri tempi, Fabio Fazio (di cui Berselli ha scritto soprattutto nella fase da giovane promessa e ora chissà in che categoria sta).
Lo si è detto: potenzialmente non si salva nessuno da questa analisi delle divinità culturali (o sottoculturali) italiane di successo: il contrario di un’operazione simpatia, certo, ma che ha il pregio di essere schietta e diretta, senza essere paludata. Accostare ripetutamente, quasi mettendoli sullo stesso piano, Emilio Fede e Vasco Rossi è ardito, ma è una dichiarazione di intenti manifesta, tipica di chi non si nasconde dietro a un dito (nemmeno il pubblico, del resto, è in grado di nascondersi: all’anteprima del programma, commenta in modo copioso le immagini che scorrono, ma quando appare il Vasco da Zocca cantano tutti e non si vergognano di certo).
«A me mi ha rovinato il successo», potrebbero dire diversi dei presi di mira nell’esordio di Quel gran pezzo dell’Italia: lo sapeva anche Oriana Fallaci, ospitata con uno spezzone delle Teche Rai, visto che per lei «il successo porta i cattivi odori e non necessariamente quelli di chi ha successo». La sensazione è che non avesse del tutto torto, anche se quando si attraversa la fase del solito stronxo e si acquisisce un misto di spocchia ed eccessiva tendenza a prendersi sul serio, gli osservatori hanno la seria tentazione di dire «quello è sempre stato così», anche quando magari non è vero.
Berselli nel 2006 aveva raccontato tutto questo, gettando un aggraziato candelotto di dinamite tra le platee letterarie e televisive: qualcuno aveva approvato tutto in modo incondizionato, annuendo alla vivisezione culturale di Giuliano Ferrara o della star di turno, altri erano stati colti da moti di disapprovazione, ma il dibattito aveva tenuto banco per mesi.
E allora, mentre sullo schermo scorrono morettate varie e assortite, diventa naturale chiedersi come ci si può salvare da questa devastazione intellettuale (e scatologica, per riprendere il paradigma di Arbasino). Una risposta, in qualche modo, la dà un indubbio venerato maestro, Carlo Freccero (anche se lui si qualifica piuttosto come «uno dei responsabili della fabbrica dei soliti stronxi»): a suo dire, «le giovani promesse si salvano solo se rimangono promesse e restano precarie: se diventano ufficiali è un disastro».
Va meglio, almeno in apparenza, a coloro che ricevono quell’ufficialità in modo quasi divino, con un’atmosfera da “santo subito”, anche se magari la legittimazione non viene dal mondo della cultura: «Baricco – ne è convinto Freccero – diventa un venerato maestro perché è lo spirito santo di Renzi». Che poi, forse, lo era già diventato prima, ma forse sono dettagli.
Perché l’importante, a questo punto, è riconoscere per tempo i segni delle trasformazioni, dei passaggi da uno stato all’altro, magari essendo già avvertiti delle successive evoluzioni e di quello che comportano. Perché, come ricorda Bocca in coda alla prima puntata, «finite le aspirazioni (e le ispirazioni) resta l’applauso, più per abitudine che altro». E in effetti la tv un applauso non lo nega quasi a nessuno, che sia spontaneo, chiamato dal conduttore di turno o suscitato da un improbabile “scaldapubblico”. Almeno finché, quando la musica della sigla è finita, le luci si spegnono e si spegne anche l’applauso, senza alcuna certezza sul fatto che ritorni.