Non molti giorni fa si è conclusa la cosiddetta “operazione trasparenza” da parte del Governo, ovvero la pubblicazione, sul sito ufficiale dell’esecutivo, dello stato patrimoniale dei Ministri e dei Sottosegretari che compongono la formazione di Mario Monti.
[ad]La messa on-line dei dati non ha mancato di suscitare scalpore, dando spunto a commenti e analisi tanto dalla blogosfera quanto dai principali quotidiani e intasando per diverso tempo il sito stesso a causa dell’elevatissimo numero di accessi e download.
Ciò che colpisce e fa riflettere, tuttavia, sono i toni e gli argomenti utilizzati tanto dalla stragrande maggioranza dei giornalisti, quanto dalla quasi totalità dei lettori negli spazi per i commenti messi a disposizione dalle testate.
Il tema focale, ovvero il desiderio di fare trasparenza e indicare con precisione lo stato patrimoniale dei componenti del Governo e le relative analisi su eventuali conflitti di interesse, ha lasciato rapidamente il fatto ad una rapida e generalizzata indignazione per i volumi dei redditi pubblicati, che evidenziano senza quasi eccezioni un esecutivo di Paperoni.
Dichiarazioni 2010 e compensi dei componenti del Governo Monti |
Come evidenzia la tabella, che riporta rispetto ai dati pubblicati solo la dichiarazione dei redditi 2010 ed il compenso percepito per il ruolo di governo, i valori indicati sono oggettivamente alti.
Se il compenso percepito dallo Stato oscilla intorno a poco meno di 200.000 €, le cifre si innalzano enormemente se si osservano le dichiarazioni dei redditi del 2010: il valore medio, tra coloro che hanno riportato il dato, è di oltre 700.000 €, compresi tra i 7.005.649 € del Ministro della Giustizia Severino ed i 60.242 € del Sottosegretario all’Istruzione Ugolini.
Tra i 33 membri del Governo che hanno indicato i redditi 2010, appena 3 dichiarano meno di 100.000 €, nove sono tra i 100.000 € ed i 200.000 €, undici tra i 200.000 € ed i 500.000 €, tre tra i 500.000 € e 1.000.000 €, quattro tra 1.000.000 e 2.000.000 €, uno tra 2.000.000 € e 5.000.000 € e infine uno oltre i 5.000.000 €.
Si tratta di valori – salvo forse i tre più bassi – in ogni caso altissimi, cifre spesso ben oltre la portata dei guadagni non di un anno, ma di una vita intera per la stragrande maggioranza della popolazione, e proprio su questo si sono concentrate le attenzioni dei principali giornali italiani.
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[ad]Particolarmente sensibile al tema, come sempre quando si parla di trasparenza e di “Casta”, si è dimostrato Il Fatto Quotidiano, che ha dedicato alla vicenda più di un articolo.
Tra i pezzi più interessanti dedicati dal quotidiano di Padellaro spicca sicuramente Il Governo del 5%, di Giulietto Chiesa, in cui si evidenzia come i membri del Governo appartengano senza esclusione di colpi a quel 5% della popolazione che dichiara – con tutte le riflessioni sull’evasione fiscale che questo verbo comporta – oltre i 200.000 € annui. Riallacciandosi ad un misto tra il buon senso e Karl Marx, Chiesa si interroga su quanto chi vive nell’Olimpo dplutocratico del Paese possa conoscere delle esigenze del restante 95% della popolazione, alle prese con problemi di tipo ed entità forse sconosciuti a chi detiene simili livelli di reddito e ricchezza.
Approfondisce ulteriormente l’analisi, sempre sul medesimo giornale, Luca Telese con il suo Redditi dei Ministri: è vera gloria?, in cui, pur rispettando la ricchezza degli esponenti del Governo, la usa come grimaldello per valutare i loro comportamenti e le loro posizioni.
Nei commenti l’attacco velato alla ricchezza dei Ministri degli articoli diventa aperto, e arriva a toccare un nervo scoperto della società capitalista occidentale: quanto è etico guadagnare una cifra così esorbitante rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione? Con il termine etico non si intende naturalmente indagare sulla provenienza più o meno lecita della ricchezza di Monti e della sua compagine, quanto piuttosto interrogarsi sulle basi filosofiche del concetto di proprietà privata.
In un mondo in cui il dogma della crescita infinita sembra quantomai in crisi, in cui le risorse e le ricchezze sono limitate e in cui un accumulo da una parte genera invariabilmente una scarsità dalla parte opposta, non dovrebbe essere fissato un limite alla ricchezza individuale? Ma, dalla parte opposta, se una persona per merito o per fortuna viene in possesso di una simile ricchezza in maniere legali, perché il suo diritto a tale possesso dovrebbe essere messo in discussione?
A complicare e confondere ulteriormente le idee è stata la semplificazione – naturalmente errata – di ragionamento che vuole che poiché i membri del Governo sono dipendenti pubblici, anche quanto guadagnato in precedenza debba essere stato pagato con soldi pubblici. A maggior ragione si è gridato allo scandalo per i redditi principeschi dei membri del Governo, ma la realtà è ben differente: molto pochi di coloro che compongono l’esecutivo avevano in precedenza un incarico pubblico, e nessuno tra quelli con i redditi più alti. L’ipotesi di porre un limite alla ricchezza deve scontrarsi anche con questo importante fattore: i soldi con cui Paola Severino, per citare l’esempio più eclatante, ha costruito il suo reddito 2010 non provenivanodallo Stato, ma da altri privati. Perché dovrebbe essere fissato un tetto ad un simile ammontare? Sulla base di quali vincoli legali?
Lo strumento a disposizione dello Stato per la redistribuzione della ricchezza già esiste, e sono le tasse: attraverso il fisco lo Stato raccoglie la ricchezza dei singoli in un bacino comune e la utilizza per fornire i servizi a cui siamo abituati. La progressività della tassazione è di per sé garanzia che i ricchi finanzieranno i servizi per i più poveri… o almeno così sarebbe in un regime teorico di tassazione, senza evasione ed elusione. Se lo strumento è imperfetto o starato, quindi, è possibile correggerlo, senza andare ad invocare misure che se una persona dovesse subirle non troverebbe poi così gradite.
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[ad]Un altro spunto di riflessione generato dalla pubblicazione dei redditi e dei compensi dei Ministri è il fatto che per quasi tutti l’assunzione della carica pubblica ha significato un abbassamento del reddito, per lo meno di quello espressamente monetario. Istintivamente un simile accostamento non può che far pensare all’integrità di persone che rinunciano a maggiori guadagni per servire lo Stato, ma deve tuttavia essere interpretato con la giusta dose di pensiero critico da parte di chi oggi si erge a paladino contro la Casta dei politici. Nel bene o nel male, fare il politico è una professione. Entrare in politica, per una persona normale, significa abbandonare un impiego, spesso senza alcuna garanzia di riaverlo al termine del mandato. Non è solo naturale, ma è anche giusto che la politica debba essere fonte di sussistenza per chi se ne occupa, nel momento in cui se ne occupa. Il rischio è infatti una sorta di deriva di censo, tale per cui solo chi ha alle spalle capitali consistenti potrà permettersi di sedere in Parlamento o in generale assumere cariche pubbliche, segnando un’imperfezione drammatica nella qualità della nostra democrazia. Chiaramente lo scenario prospettato è estremo, ma altrettanto estreme, ad oggi, sono le posizioni di molte persone che guardano alla politica con una certa miopia, pensando non tanto a come la politica dovrebbe funzionare, ma solo ai mali che la classe dirigente italiana ha compiuto negli anni.
Troppo inosservato è passato invece l’atto in sé, la pubblicazione in quanto tale, la messa a disposizione dei dati personali di reddito e patrimonio, e soprattutto la valutazione offerta al cittadino sul grado di conflitto di interesse. Eppure anche su questo tema gli spunti di riflessione non mancano: quanto vale per il reddito personale non può valere per le proprietà? Se si costruisce e si promuove l’immagine del politico di passaggio, del cittadino prestato alla politica, a maggior ragione chiedere ad una persona di rinunciare – con tutti i costi che magari questo comporta, come vendere azioni o obbligazioni in un momento sfavorevole – ad alcune delle sue proprietà deve essere qualcosa che si deve pretendere con la giusta misura. In caso contrario si ricade di nuovo nel circolo vizioso di una democrazia basata sul censo, dove solo chi ha le spalle coperte può permettersi di affrontare la politica.
Forse nemmeno il Presidente Monti e suoi Ministri si aspettavano tanto, pubblicando le proprie dichiarazioni dei redditi; hanno tuttavia avuto il merito, oltre di aver dimostrato una trasparenza senza pari tra i politici degli ultimi anni, di spronare la popolazione italiana a riflettere su importanti questioni di fondo che troppo spesso vengono date per scontate oppure ignorate, lasciandole facile preda della demagogia.