Cesare Damiano è una persona accogliente, gentile e sorridente. Sempre sul ‘pezzo’. Si informa, a sua volta esprime la sua profonda conoscenza del mondo del lavoro. Una competenza che in Italia solo pochi hanno. E’ stato Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale col Governo Prodi II (2006-2008), alla Camera dei deputati proprio dal 2006, una vita nel sindacato (la Cgil ovviamente) torinese, adesso Damiano si ritrova a dirigere la Commissione Lavoro di Montecitorio in qualità di Presidente (Pd). E a correggere i tiri spesso sbilenchi dell’esecutivo Renzi.
Presidente Damiano, il premier ha parlato, giorni fa, di ‘Sindacato unico’. Una terminologia rischiosa, che di fatto ha dato luogo ad un mare di critiche.
“E’ evidente che l’errore deriva da una scarsa conoscenza della storia del movimento sindacale italiano. Non è una bestemmia l’idea di sindacato unico come hanno sostenuto certi dirigenti sindacali che hanno richiamato il fascismo. Potrei aggiungere i casi comunisti, quelli cinese e sovietico. Ma anche suggerire sindacati dalla storia gloriosa, le Trade Unione inglesi. Qual è la differenza allora tra quest’ultima esperienza e il caso italiano? Le Trade Union fondano il Labour Party, mentre in Italia avviene il contrario. Il Partito Comunista clandestino rifonda nel 1944, assieme al Partito Socialista e al Partito Democratico Cristiano anch’essi clandestini, il sindacato per mezzo del Patto di Roma. Quindi la Cgil è l’espressione plurale che individua in un sindacato unico, in quanto unitario, il veicolo con le masse. E’ evidente che nella storia si può parlare di sindacato unito quando le sigle convergono su certe iniziative o di sindacato unitario – dai primi 60 all’inizio del 70 – per esempio con la costituzione del sindacato dei metalmeccanici. Quindi direi di accantonare l’espressione di sindacato unico, non fa parte del nostro patrimonio. Non si può imporre una legge, ma bisogna semplificare le sigle sindacali in quanto non si può dare torto a coloro che dicono come la trattativa si ingolfi durante le sessioni di concertazione nella sala verde di Palazzo Chigi per via delle 17 sigle. Tuttavia bisogna sforzarsi di mantenere una relazione tra governo e parti sociali.
Damiano, allora come certificare la rappresentatività alle sigle sindacali?
Sono firmatario di una legge che la prevedrebbe e che ha le basi già nell’accordo interconfederale tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. E’ dagli anni 80’ che gira l’idea di fissare una soglia al 5% degli iscritti a livello nazionale.
Certificate da chi?
Dall’Inps. Ma va certificato anche l’esito delle elezioni delle RSU (Rappresentanze Sindacati Unitari) nei luoghi di lavoro. E può farlo l’Inps, sempre. Se la media delle adesioni e voti supera l’asticella del 5% allora sono rappresentativi. L’importante è che l’accordo sia ritenuto valido se le somme dei voti costituisce il 50% più un voto. Servono sì leggi di sostegno alla rappresentatività.
Passiamo all’economia reale, Presidente Damiano. Il Reddito minimo garantito fa capolino trai pensieri di molti dirigenti nazionali e parlamentari dem. La sua opinione in merito? E’ attuabile, è sostenibile finanziariamente? Gioverebbe sull’alimentazione della domanda aggregata (consumi ed investimenti)?
Anzitutto va distinto tra reddito minimo, compenso orario minimo, reddito di cittadinanza ed altro. Io sono contrario al reddito di cittadinanza, ma non sono contrario al reddito minimo. Tutto parte però dalla povertà: sono contrario ad una generalizzazione del termine povertà. Servono anzitutto i servizi sociali (locali, comunali e nazionali) per contrastare il fenomeno. Lo standard sono 700 euro al mese pagati dalla collettività. Poi ci sono altri poveri: i 5 milioni e 800 mila pensionati che arrivano solo a 600 euro al mese. In questo caso si tratta di migliorare l’assegno pensionistico. Va alzato a 700 euro, relativamente a quanto si è versato. Poi ci sono coloro che possono diventare poveri: è il caso degli esodati. Questi vanno mandati in pensione, non devono essere mandati dall’assistenza. Vi devono essere interventi su misura. Interventi differenziati.
Concludiamo circa la spina nel fianco di Matteo Renzi, la spaccatura a sinistra nel Pd. Civati e cuperliani sono in fermento: il primo è uscito polemicamente e le conseguenze sono evidenti nelle elezioni liguri, i secondi hanno esponenti che assiduamente frequentano i luoghi del dissenso e della critica a Renzi ed alla sua gestione partitica e del Paese.
Renzi fa contemporaneamente politiche di destra e di sinistra: è di sinistra dare gli 80 euro ai redditi medio-bassi, non è di destra la politica sui licenziamenti collettivi. Detto questo accetto la sfida di Renzi ma mi pongo dei limiti nella mia condizione di sinistra: la prima è che intendo rimanere nel Partito Democratico in quanto non vedo un luogo al di fuori del Pd. Non credo esista un’alternativa a sinistra del Partito Democratico. Secondo: io non sono renziano, ma non sono anti renziano. Cioè spero che Renzi abbia successo. Naturalmente io lavoro per correggere le leggi, le proposte, i decreti e le deleghi che il Governo avanza quando i loro contenuti non sono convincenti. L’ho fatto dal tempo del Governo Monti – con la legge Fornero, 170 mila salvaguardati e col Jobs Act, 37 emendamenti alla Camera, con la Legge elettorale e quella Costituzionale, per la scuola con le assunzioni. Bisogna arrivare al compromesso. Dopodiché la sinistra ha le sue sofferenze ma non credo che a livello parlamentare ci sia un’emorragia dal Pd. Vi è già stata trai quadri, militanti e volontari della festa. Io lavoro per mettere un tappo al rubinetto/emorragia. La nostra minoranza dialoga, cerca il compromesso, tratta e si pone con l’atteggiamento di votare le fiducie a questo Governo. Si, io voterò sempre la fiducia al mio Governo”.
Daniele Errera