Quello che è successo durante l’ultima tornata di elezioni amministrative in Italia merita un’analisi che prescinda dalla fretta con la quale, in questi giorni, sono stati riversati fiumi d’inchiostro, sulla carta come sul web, a volte ritengo più per compulsione personale che per spirito di critica razionale.
Due concetti chiave
Alla luce di ciò, e per scovare i fasci di tal epifania mi sono volontariamente preso un paio di giorni per vagliare senza foga, dato per dato, regione per regione, ragione per ragione e, per citare un cantautore di Genova ne La domenica delle salme, «comunista per comunista», due affreschi emergono con dei contorni abbastanza netti: il partito della nazione non esiste più (poco male visto che chi ricorda un po’ di storia del pensiero politico sicuramente ricorderà anche a cosa è associato tale epiteto) e quello che oggi si vorrebbe spacciare quale nuova forza di governo radicata, emancipata e connessa con l’elettorato tramite il sacro principio del «se non ora quando», non sembra fare bene i conti con la realtà delle cose (ciò invece fa male eccome).
In questa sede limiterò il mio sguardo alla parte sinistra del corpo elettorale, non perché essa faccia orrore e di conseguenza io possa serbare un particolare gusto per l’orrido, ma perché nelle sue pieghe statistiche il fenomeno è più evidente preso atto delle continue oscillazioni a destra dell’emiciclo scaturite da alcune iraconde, seppur in crescita tendenziale, sortite di Salvini e da un ancora troppo debole, politicamente inefficace, ben lontano dai suoi fasti, alle prese con una successione di potere difficile ed ora pure prossimo “Napoleone da biografia agiografica” Silvio Berlusconi.
Partito della nazione o città-Stato?
Citavo prima il buon De André e i comunisti. Proprio l’ala sinistra più ampia e radicale, per come si è affermata nella forte tradizione politica, territoriale e identitaria novecentesca in Italia, quella che dal Pci di Palmiro Togliatti intercede presso le lotte sociali, sindacali e di classe per lanciarsi nella coltre fuligginosa degli anni di piombo fino a Enrico Berlinguer e arrivare con il fiato grosso, edulcorata, asfittica, fino alla parlamentare successione (per alcuni storici forse sarebbe più adatta la parola “secessione”) di Occhetto, quindi ai Ds, l’Ulivo e dunque al Pd, muta oggi drasticamente pelle, ragion d’essere, essenza.
Tralasciando altresì il dato dell’astensione, soltanto il 47% degli aventi diritto si è recato alle urne, la perdita di diversi feudi di peso per il Pd, leggasi i comuni di Venezia, Matera, Arezzo, Nuoro, regge alla sua base, granitica, un minimo comune denominatore: alla nazione con il cuore in mano che segue le volontà dell’illuminata segreteria del suo partito di governo e che ne condivide oneri e onori nella partecipazione estatica dei circoli sparsi per il territorio, portando proposte, proponendo mozioni, programmi e idee a tutti i livelli della popolazione, abbiamo nella memoria letteraria l’esempio di Guareschi, si è sostituita la prassi del governo locale, il culto della persona e della vicinanza alla quotidianità quale disperata reazione di necessità ad anni d’immobilismo di palazzo. Non soltanto in questi, ma anche in questi termini si possono spiegare le nette affermazioni delle liste civiche non collegate ad alcuna fazione politica o ideologica specifica.
Un misto di amarezza e di frazionamento civile che però non aveva impedito, fino a qualche tempo fa alla nostra nazione senza partito, di consegnare proprio alla formazione politica del premier Matteo Renzi il 41% dei consensi, facendola così assurgere al ruolo di prima forza di sinistra importante e numericamente rilevante d’Europa. Davanti alle necessità di una pluristratificata società della comunicazione odierna, politicamente, si è scelto di ritornare alle città-Stato, non si discute la scelta, ma si evidenzia il dato. Il Pd appare dilaniato da mille rivoli striscianti interni e la cultura riformista parecchio appannata da rigurgiti interclassisti difficili da metabolizzare o da sintetizzare in una nuova forma di dialettica politica che non abbandoni i principi della tradizione di pensiero e che, nello stesso tempo, non si appiattisca sui centoquaranta caratteri.
Ideologie e scenari
«L’Italia è un paese moderato, vince chi occupa il centro. Con personalità».
Queste affermazioni del segretario del Pd, un partito che come ho tentato di dimostrare prima in virtù della sua storia e della sua sporogenesi dovrebbe guardare anche a sinistra, giungono quale colpo di grazia sulla testa di un’altra grande categoria afflitta del nostro sistema parlamentare odierno: l’ideologia. Una massa critica sempre più tesa alla realizzazione repentina, e non sempre efficace, di programmi condivisi e accentranti condita da governi allargati e alleanze improbabili, abbiamo perfino dei novelli gruppi parlamentari che si battezzano Conservatori e Riformisti, sta contribuendo in maniera significativa a far allontanare dai processi decisionali anche quelle poche bestie rare che ancora provano ad identificarsi in una pars construens politica, insomma, in una destra o in una sinistra.
Tutto questo crea somma inquietudine a maggior ragione se si pensa che, a meno di eventuali elezioni anticipate, si tornerebbe al voto nel 2018 con una nuova legge elettorale, l’Italicum, che prevede un doppio turno con premio di maggioranza alla lista il quale abolirebbe, de facto, le coalizioni, gli smistamenti e gran parte degli intendimenti da trenta denari d’argento nel Sinedrio, ma aprirebbe contemporaneamente scenari inediti per l’eventuale ballottaggio successivo. In merito a tale apparente contraddizione in termini si è espresso un po’ più a fondo Roberto D’Alimonte. Tirando le somme, sembra che il partito della nazione abbia ingranato una marcia: sarebbe saggio, da parte della rappresentanza parlamentare tutta, quantomeno accertarsi di aver scelto la stessa marcia della nazione, così, «per vedere di nascosto l’effetto che fa».
di Riccardo Piazza