Uscire dall’Europa? Casomai il contrario, cioè far entrare maggiormente l’Italia in Europa, con progressi significativi su vari piani, a partire dalla politica fiscale comune e sulla difesa. E’ questo l’orizzonte necessario per il nostro paese secondo Massimiliano Salini, 41 anni, candidato in quota Nuovo centrodestra nella lista Ncd-Udc del Nord-Ovest.
Salini partecipa a queste elezioni da presidente uscente (senza successori) della provincia di Cremona, carica ottenuta nel 2009; nella vita è anche project manager dal 2000 ed è stato membro di consigli di amministrazione di società ex municipalizzate. Con lui parliamo dell’Europa che ancora non c’è (specie in termini di politiche condivise), ma anche delle scelte elettorali del Nuovo centrodestra e del futuro politico dell’alleanza varata per queste elezioni: se le strade di Alfano, Cesa e Mauro si unissero definitivamente, Salini sarebbe il primo a metterci la firma.
Salini, come nasce la sua candidatura a queste elezioni?
Nasce innanzitutto dalla mia esperienza di presidente della provincia di Cremona. Fin dall’avvio del percorso di costruzione delle liste del Nuovo centrodestra, questo partito nuovo, desideroso di far conoscere nella maniera più capillare possibile anche a livello territoriale il contenuto della sua proposta, ha valutato l’ipotesi di considerare i presidenti in carica delle province per un loro inserimento in lista: erano e sono visti come rappresentanti certamente coerenti con il criterio della penetrazione territoriale delle candidature. Dal canto mio, la candidatura nasce dalla percezione puntuale dell’enorme pertinenza dell’Unione europea dei temi importanti con cui in questi anni mi sono trovato a lavorare come presidente della provincia: penso ad esempio alle liberalizzazioni dei servizi pubblici locali, al lavoro, all’agricoltura. Per me è un fatto abbastanza semplice considerare questa candidatura, che arriva al termine del mio mandato, come un’evoluzione non solo naturale, ma anche doverosa, del lavoro fatto in questi cinque anni.
Lei ha svolto solo un mandato da presidente, ma in ogni caso non sarebbe eletto un suo successore in quella formula: come rispondere a chi collegasse la sua candidatura all’impossibilità di candidarsi di nuovo alla guida dell’ente provinciale?
Guardi (ride), la mia carriera non è politica. Io ho fatto il presidente in questi cinque anni sospendendo temporaneamente il mio lavoro, ma quando penso al mio futuro penso al mio lavoro, al quale rimango attaccato e affezionato con molta, molta tenacia. In questo senso il tema della carriera in ambito politico non mi riguarda: certamente in questo momento ho ritenuto opportuno continuare l’attività politica per le ragioni che le dicevo, ma non avrei avuto nessun contraccolpo – anzi, magari qualche contraccolpo positivo – se dal 26 maggio mi fossi ritrasferito alla mia attività lavorativa. Non è dunque un ripiego determinato dal fatto che non avrei saputo cosa fare! (ride)
Prima di aderire al Nuovo centrodestra, lei era nel Pdl o era indipendente?
Io sono stato eletto nel 2009 come indipendente; per diverso tempo non ho aderito ad alcuna sigla, pur collocandomi nel centrodestra. A un certo punto, tra il terzo e il quarto anno di amministrazione provinciale, ho aderito al Pdl, formulando però in quell’occasione alcune specifiche precisazioni e condizioni: c’erano già le prime avvisaglie di alcune questioni culturali e politiche in senso stretto che mi facevano ritenere che quello fosse un ambito complesso da individuare come area di appartenenza. In ogni caso, dopo poco tempo il Pdl ha fatto la fine che sappiamo.
Ha aderito subito a Ncd? E perché lo ha scelto?
Per l’esattezza sono uno dei soci fondatori di Ncd. Ho fatto questa scelta sulla base di una ragione culturale e una contingente. La seconda, in ogni caso, è strettamente legata alla prima. Sul piano storico, ho aderito al Nuovo centrodestra perché convintamente favorevole all’ipotesi di non far cadere il governo Letta; il Pdl, invece, visse il travaglio della decisione sulla continuità all’appoggio di quell’esecutivo e l’anima che sarebbe confluita in Forza Italia non avrebbe poi sostenuto Letta, mentre noi di Ncd ritenemmo che sarebbe stato più ragionevole non mandare il paese al voto. In questa occasione storica si “nascondono” anche più importanti elementi di contenuto che hanno accompagnato la mia decisione: avevo e ho il desiderio di dar vita a un partito realmente ancorato nella tradizione cattolica e liberale italiana. Una tradizione fatta di un approccio che io non definisco mai “dei moderati”, una cultura tra le più tenaci del panorama italiano.
Cos’ha il concetto di “moderato” che non va?
Io faccio un po’ fatica a identificare la categoria umana che va sotto l’etichetta del “moderato”: io mi considero una persona orientata a una battaglia abbastanza forte, determinata e che potrebbe diventare anche ruvida sui temi di rilevanza comunitaria che ho citato prima. Da uomo del Nuovo centrodestra esprimo una posizione costruttiva e aperta alla dimensione europea, ferma restando la necessità di applicare enormi correttivi all’attuale prassi dell’Unione europea. La nascita di Ncd è fondata su una chiara collocazione culturale dentro la tradizione cattolica e liberale e su una pretesa di un’enorme fase di cambiamento e di riforma in Italia e in Europa.
Fino a pochi giorni prima del deposito dei simboli per le elezioni europee pareva scontato che Ndc corresse da solo: sono rimasto colpito dalla scelta di Ncd e Udc di dare luogo a questa lista composita, assieme al gruppo di Mauro. Lei che spiegazione si è dato per questa operazione? A qualcuno ha fatto pensare che anche Alfano temesse di non raggiungere il 4%…
Sono abbastanza certo di dare una lettura vicina alla realtà dei fatti. Questa scelta, al di là del fatto che possa essere stata assunta o formalizzata solo in prossimità del deposito dei simboli e delle liste, mi sembra dettata da un sano realismo politico, che non è determinato tanto dai conti fatti da Alfano: delle tre forze che hanno deciso di aggregarsi in queste liste, se c’erano forze che potevano avere problemi sul possibile consenso da raccogliere in rapporto alla soglia di sbarramento, quelle erano l’Udc e i Popolari per l’Italia di Mauro più che il Nuovo centrodestra. I sondaggi, per quello che possono valere, da tempo davano Ncd al di sopra della soglia del 4%. Il realismo politico però si basa anche sul fatto che forze politiche con una proposta così vicina, in una competizione elettorale ancora poco digerita dagli italiani che richiede la massima semplificazione possibile del quadro politico, correndo separate nella stessa area avrebbero complicato ancora di più la decisione degli elettori. Si è dunque semplificato il messaggio, in modo da far convergere in maniera responsabile tutta quell’area degli elettori su un’unica forza politica.
Quindi lei non si sente entrato in un gruppo, in una lista eterogenea?
No, assolutamente, tutt’altro. La confezione delle liste, la campagna elettorale sono conformate in maniera tale da rendere evidente la compresenza di soggetti che di fatto appartengono a un unico corpo politico. C’è una compattezza dimostrata anche plasticamente in queste settimane di campagna elettorale. Non le nascondo che la sensazione è che questo tipo di compattezza, anche come lavoro parlamentare, ci fosse già da parecchio tempo, dunque l’assetto era prevedibile.
Non si stupirebbe dunque se questo, che ora è solo un cartello elettorale, diventasse qualcosa di più solito e strutturato…
Già. Innanzitutto me lo auguro; secondariamente credo che sia un esito inevitabile.
Di poche ore fa è la notizia del tribunale di Venezia che ha investito la Consulta della questione di costituzionalità sulla soglia del 4%. Secondo lei è necessario e sensato mantenere una soglia di sbarramento anche per l’accesso a Strasburgo?
Io sono sempre stato favorevole a un processo di selezione delle forze politiche anche da un punto di vista quantitativo, consapevole della semplificazione e anche un po’ della contraddittorietà di questo criterio di selezione, perché il dibattito democratico si fonda sulla possibilità che ogni proposta politica possa esprimersi … Il dibattito però è una cosa e l’azione è un’altra: quando si arriva a dover definire dei rappresentanti che poi avranno dei compiti specifici, un ruolo e una responsabilità con ricadute forti sulla vita dei cittadini, diventa necessario operare una selezione anche quantitativa, individuando le quantità minime che consentono di attribuire a quel rappresentante il diritto di assumere decisioni. Il tema di quale sia la soglia più adeguata a seconda della competizione elettorale non lo affronto volentieri, per sua natura è sempre difficile da teorizzare, si fa una mediazione che è sempre molto approssimativa: questa soglia del 4% mi sembra che vada bene.
Nelle vostre liste figurano anche i nomi di Beatrice Lorenzin e Maurizio Lupi, ministri del governo in carica: è quasi impossibile che optino per Strasburgo lasciando i loro ministeri. Non era meglio evitare la loro candidatura?
Questo non lo so, immagino fosse possibile: di certo, in una fase fondativa come quella che attraversa ora il Nuovo centrodestra, il mio ragionamento è un po’ diverso e apprezzo molto che chi ha partecipato da posizioni autorevoli alla nascita di questo nuovo soggetto politico, nella prima competizione elettorale in cui il partito si misura col consenso degli elettori decida di mettere la sua faccia. Non per candidatura di bandiera, ma per essere bandiera del partito, dove c’è un radicamento storicamente di questi candidati. Certo, è una modalità rischiosa per certi versi: per uomini politici appena passati dall’appartenenza a uno dei partiti dimensionalmente più importanti del paese a un altro che avrà verosimilmente un consenso inferiore rispetto a Forza Italia (anche se magari sarà più ragionato e consapevole), metterci la faccia e farsi contare è un gesto di grande lealtà e servizio nei confronti del partito.
Ma agli elettori che dovessero votare la Lorenzin o Lupi e, in caso di loro rinuncia successiva all’elezione, vedessero finire il seggio a un candidato dell’Udc, cosa si può dire?
Guardi, gli elettori fanno la sua stessa valutazione: l’elettore non è stupido, guarda la lista, vede che Lupi e Lorenzin sono ministri e decide liberamente se il proprio voto è giusto che vada o meno a loro, valutando il rischio che questi vadano o meno al Parlamento europeo. Come lei è consapevole della possibilità che loro non vadano al Parlamento europeo, ne è consapevole anche l’elettore e prende la sua decisione, o per dare una conferma di stima a Lupi e Lorenzin per il loro operato, o per dare la preferenza a chi certamente non rinuncerebbe al seggio, senza che questo sia un segnale di disistima per i due ministri. Posso dirle che in campagna elettorale giro molto e nessuno si pone il problema sull’elezione o meno di Lupi: la gente mi chiede altro, mi chiede cosa vuole fare Ncd per il lavoro, per la sicurezza del paese e per dare più protagonismo al paese.
Ce lo siamo inventati noi giornalisti il problema?
No, no, anzi: lei pone una questione corretta e legittima. Sto solo cercando di collocarla nella sua dimensione giusta, in mezzo a tante priorità che ci sono di fronte a questo appuntamento elettorale.
So che lei ha intenzione di concentrarsi, in caso di elezione, anche su temi che non sembrano “molto europei”, come l’educazione e la famiglia…
Beh, i temi di cui mi occupo di più sono innanzitutto le liberalizzazioni nei servizi pubblici locali. Il tema dell’impresa e anche della famiglia sono i due grandi pilastri di carattere “orizzontale” che attraversano tutti i vari temi “verticali” su cui amo impegnarmi.
Parlando di educazione, è facile pensare all’Erasmus, ma per il resto non vengono in mente molti altri collegamenti immediati con l’Europa… Qual è dunque la sua dimensione europea?
In prima battuta possiamo considerare una questione di rilevanza comunitaria anche ciò che non prevede un intervento sistematico normativo da parte dell’Unione europea. Quello dell’educazione è il classico caso in cui l’intervento dell’Ue dal punto di vista delle norme avviene in forma indiretta: l’Unione ad esempio finanzia in modo massiccio la formazione professionale, uno degli ambiti più interessanti che io certamente mi sento in dovere di far rientrare nel novero delle politiche di carattere educativo. Questo anche per la consapevolezza che, in questo momento storico, la centralità della formazione professionale ritorna come elemento di grande priorità per comporre una proposta che sia davvero pertinente con la volontà di superare la crisi. Abbiamo una prospettiva in cui nuovi posti di lavoro per anni non ne avremo se non in minima parte, quelli lasciati liberi da chi va in pensione sono molto “leggeri”; gli unici posti di lavoro effettivi e “pesanti”, figli di un avanzamento in termini di sviluppo, nasceranno solo negli ambiti innovativi, soprattutto nelle aziende private, in cui si creeranno le condizioni per avere personale con abilità molto elevate. Per questo la formazione a tutti i livelli è un punto cardine delle politiche educative articolate tra paesi membri e Ue. In generale ho una sensazione piuttosto negativa su come vengono spesi i soldi in Italia in ambito educativo: non si spende poco, si spende male, destinando quasi tutto al personale e senza puntare sulla sua valorizzazione. In più abbiamo l’enorme problema del mancato riconoscimento di un’effettiva parità scolastica.
In che senso?
In Italia, a differenza che nel resto d’Europa, le scuole paritarie non vengono finanziate dallo stato e questo è, oltre che un unicum del nostro paese per cui solo i cittadini ricchi o medio-ricchi possono scegliere quelle scuole, un esempio di mancata attuazione di una risoluzione del 1984 che richiamava l’Italia ad adeguarsi al principio di parità scolastica. Dovessi essere eletto a Strasburgo, farei quello che normalmente un rappresentante nazionale non deve fare, cioè andare in Europa a dire l’Italia non rispetta quella risoluzione – ingiustamente e secondo me incostituzionalmente – e quindi inviterei ad aprire la 120esima procedura d’infrazione verso l’Italia, che ne ha già 119, favorendo per via europea ciò che la politica italiana non ha ancora fatto.
E come la mettiamo con l’articolo 33 della Costituzione che sancisce che le scuole paritarie devono essere “senza oneri per lo Stato”?
Questo tema, di cui tra l’altro mi sono occupato nella mia tesi di laurea, riguarda l’interpretazione di uno dei punti più discussi della nostra Costituzione. C’è un’interpretazione che io ritengo molto dozzinale, secondo la quale “senza oneri per lo Stato” significa che lo Stato non deve sostenere costi per la scuola paritaria; ce n’è invece un’altra che ritengo più adeguata e coerente con i criteri di interpretazione adottati per tutte le altre disposizioni costituzionali, in base alla quale quell’espressione significa che non ci debbono essere oneri aggiuntivi rispetto a quelli che normalmente lo Stato utilizza per finanziare l’educazione degli studenti. Nell’ambito della scuola paritaria, dunque, lo Stato dovrebbe spendere esattamente tanto quanto spende per la scuola statale: non un euro di più, non uno di meno. Oggi invece lo Stato spende una quantità enorme di denaro per la scuola statale e 500 milioni di euro annui per la scuola paritaria; se però domattina tutte le paritarie in italia chiudessero, lo Stato dovrebbe spendere 6 miliardi di euro, soldi che lo Stato risparmia in gran parte. Provi a immaginare questo scenario: dove troverebbe lo Stato per dare un’istruzione a tutti quelli studenti?
E come si inserisce nel discorso europeo la famiglia? Sembra che l’Ue se ne occupi molto poco…
Ha ragione. Credo che debba esserci una dimensione europea della famiglia: l’Unione europea, che si è impegnata a dare definizioni e disposizioni sugli argomenti più disparati che riguardano la vita dei cittadini, a volte intervenendo nel dettaglio sulla loro vita privata, non può a mio modo di vedere rinunciare – anche da un punto di vista politico, ma il problema dell’Europa sta proprio lì, nella sua debolezza su quel piano – a proporre, individuare, riconoscere un tipo di famiglia. E la famiglia che l’Europa non può non riconoscere, per la storia e la realtà in cui siamo introdotti in modo incontrovertibile, è quella costituita da un uomo che è padre e da una donna che è madre. Questo mancato riconoscimento della famiglia come nucleo della società in questa forma è un elemento che, pur nascendo dalla volontà di favorire la libertà delle coscienze, produce il risultato esattamente opposto: impedisce all’Ue di operare politiche a favore di quello che in tutto il continente è il nucleo effettivo della società. Abbiamo quindi un’Europa che interviene su tutto ma che sul welfare a favore della famiglia non è in grado di dare indicazioni efficaci ai paesi e questo ha prodotto risultati: se si considera che in tutta l’Europa il tasso di ricambio generazionale – che gli statistici individuano in due figli per ogni donna – non è raggiunto da nessuno dei paesi dell’Unione, solo la Francia e qualche altro stato si avvicinano, mentre l’Italia è a zero. Per non parlare delle conseguenze in termini più pratici, economici: la denatalità unita al tipo di assetto pensionistico produce una fascia generazionale che ora è senza lavoro e che resterà senza pensione.
Parlava prima della liberalizzazione dei servizi locali come suo tema cardine: anche qui l’Europa deve cambiare passo?
No, devo dire che l’Italia dovrebbe rispettare di più le indicazioni della normativa comunitaria: questo è uno degli ambiti in cui le procedure di infrazione dell’Unione europea stanno per scagliarsi in maniera violenta e minacciosa contro l’Italia. Abbiamo continui richiami dall’Europa affinché i servizi pubblici locali siano assegnati con procedure di gara che mettano in competizione il pubblico e il privato, mentre abbiamo ancora il 60% degli investimenti in quell’ambito che passano o direttamente dagli enti locali o da società a diretta partecipazione statale o comunque pubblica, spesso anche totalitaria, tra l’altro con affidamenti diretti, senza gara e senza nessun presidio dell’effettiva qualità del servizio erogato e senza competizione costruttiva tra offerte economiche e tecniche. Pensi all’ambito del servizio idrico integrato: a fronte di un dibattito feroce sulla pubblicità dell’acqua, ci ritroviamo con l’Italia che dovrebbe avere 65 miliardi di euro di investimenti che possono essere fatti solo in una logica di vera liberalizzazione, mentre l’Europa sta per inviare le sanzioni perché i comuni fanno tutt’altro.
Questo vale anche per i trasporti, per esempio?
Vale per tutti i servizi pubblici locali: trasporto, energia, distribuzione gas, igiene ambientale… tutti servizi che impattano sulla quotidianità dei cittadini.
Cosa invece dell’Europa va completamente cambiato, rivoltato come un calzino?
La prima cosa su cui intervenire velocemente è il passaggio dalla semplice unione monetaria alla condivisione di una politica fiscale. Sono noti i danni di una parcellizzazione della politica fiscale: il fenomeno greco ne è una rappresentazione evidente. Non possiamo avere merci che circolano con un unico criterio di valorizzazione e gli Stati che, singolarmente e in maniera disomogenea, decidono quanto denaro prelevare dalle tasche dei cittadini circa i proventi derivanti dalla circolazione dei beni. Questo produce stranezze incredibili, specie se il paese non ha rigore nella gestione dei suoi bilanci, com’è accaduto in Grecia: fosse stata una regione degli Stati uniti d’Europa dotato di una comune politica fiscale, il fenomeno sarebbe stato rimediato per tempo, magari con una pratica di commissariamento, mentre così il tentativo di recupero è stato pagato dai cittadini. Abbiamo arginato i danni del costo del debito con l’euro, ora dobbiamo arginare altri danni con politiche fiscali omogenee: non ci siamo ancora perché l’Europa non ha ancora accettato la sfida dell’Unione politica, argomento di cui tutti si riempiono la bocca, ma bisogna dargli anche una qualificazione puntuale.
Prima ha parlato di Stati uniti d’Europa: non sarebbe tempo di andare verso una federazione o una “confederazione forte”?
E’ un elemento su cui si possono fare ragionamenti: è una valutazione da fare, a patto di avere chiaro l’obiettivo finale. Ora io non mi fossilizzo sulla definizione della forma migliore per dare corpo all’unione politica: rilevo però che la marcia di avvicinamento a quell’obiettivo è ferma, di fronte a grandi sfide come quelle sulla politica fiscale, sulla difesa comune o sull’immigrazione. E’ del tutto irrazionale, di fronte al fenomeno migratorio cui assistiamo quotidianamente, che si dica che l’Italia dovrebbe reagire uscendo dall’Unione europea: mi domando quale sia il virus che si insinua in chi ragiona così. E’ vero che abbiamo il problema dell’immigrazione e che occorre far passare il concetto che quando un migrante libico quando arriva in Sicilia non approda in Italia, ma in Europa, per cui l’arrivo di quel migrante è un problema dell’intera Ue e non solo dell’Italia; non ho però dubbi sul fatto che l’Italia non debba uscire dall’Unione europea, ma entrarci di più.