C’è un filo rosso che collega le stragi di Sousse, Lione e Kuwait City. Si chiama Isis. Si pensava che il Califatto fosse stato ridimensionato dalle vittorie delle forze curde in Siria e da quelle sciite in Iraq nei primi mesi dell’anno. Tutto sbagliato. Isis non è mai morto. Si era preso soltanto una breve pausa per poi attaccare con più forza. E così ecco cadere sotto il giogo dell’estremismo islamico Ramadi in Iraq e Palmira in Siria. Con Kobane che rischia la medesima sorte nonostante il coraggio dei peshmerga curdi e gli inutili raid aerei di Stati Uniti e alleati.
La mattanza di turisti nei due resort tunisini nel golfo di Hammamet è figlia di una nuova stagione del terrore che mira a scardinare le sicurezze degli europei che viaggiano in Paesi (Tunisia, Egitto, ma anche Kenya) che vivono di turismo. Il messaggio è quindi duplice: distruggere il tessuto economico di paesi alleati dell’Occidente contro il terrorismo islamico e al contempo mandare un messaggio alle cancellerie europee: l’Isis è vivo e dispone di mezzi per compiere attentati anche nel cuore dell’Europa (Lione e Parigi). Le conseguenze di queste stragi sono facilmente immaginabili: le forze di estrema destra e anti sistema come Front National, Lega Nord, Partito Popolare Danese (in trattative per governare in Danimarca), Ukip e Pegida ma anche governi autoritari come quello di Orban in Ungheria, cavalcheranno l’onda della paura chiedendo agli esecutivi nazionali di attuare misure più stringenti verso gli immigrati. E tutti sanno come l’immigrazione sia un tema su cui l’Europa (basta vedere il difficile compromesso raggiunto ieri notte) appaia fortemente divisa.