Nei giorni in cui l’Europa è chiamata a superare uno dei momenti più difficili della sua recente Storia, sono in molti a chiedersi il perché si debba far parte di una unione monetaria capace solamente di imporre provvedimenti ‘lacrime e sangue’. Provvedimenti che, in tempi di congiuntura economica globale, sono stati bollati con il termine ‘austerity’. Sempre più cittadini di quelli che dovevano essere, nelle intenzioni dei Padri Fondatori, gli “Stati Uniti d’Europa”, sono attraversati oggi da un sentimento di sfiducia, di indignazione, di rabbia. L’avanzata dei partiti anti-euro alle ultime elezioni europee è un chiaro segnale di come quel progetto si stia incrinando, e la vittoria dei ‘no’ al referendum greco di domenica prossima segnerebbe il fallimento di un sogno che oggi viene visto, spesso, come un incubo imposto dall’alto.
Austerity, le critiche all’Unione Europea
Molte sono le critiche che vengono mosse nei confronti della UE: è un’unione monetaria ma non politica, manca una voce comune in politica estera e sul tema immigrazione, la Germania della Cancelliera Merkel ha uno strapotere decisionale. Ma le critiche più accese sono tutte rivolte nei confronti dell’imposizione ‘dall’alto’ della politica dell’austerity.
Ma siamo sicuri che quello dell’austerity sia un problema reale? In un editoriale pubblicato stamane su Il Sole 24 ore, il sociologo Luca Ricolfi, nel condividere la maggior parte delle critiche alla UE, allo stesso tempo afferma come la demonizzazione dell’austerity sia sbagliata.
“Non esistono né un’unica politica economica dell’austerità, né tantomeno un unico esito di tale politica – ha affermato Ricolfi – Se guardiamo a quel che effettivamente è avvenuto nei cinque Piigs è arduo non constatare due fatti: primo, ogni Paese ha interpretato le direttive europee a modo suo, talora deviando significativamente dalle prescrizioni; secondo, i risultati delle politiche attuate nei vari Paesi sono radicalmente diversi”.
Ne è un esempio l’Irlanda, la quale, contrariamente a quanto consigliato dalla UE per far aumentare il gettito fiscale, non ha innalzato l’imposta societaria; in compenso, ha però diminuito la pressione fiscale e ha ridotto la spesa pubblica corrente. Risultato: indebolimento della presenza dello Stato nell’economia e una crescita per quest’anno stimata al 3-4%, la più alta della zona euro.
In Grecia, invece, le politiche attuate dai governi che si sono susseguiti dal 2007 a oggi, sono l’esatto opposto di quelle messe in atto dall’Irlanda o dalla Spagna. “Oggi in Grecia l’imposta societaria è più alta che all’inizio della crisi, la pressione fiscale complessiva è aumentata di 5 punti, la spesa pubblica corrente di altrettanti, il che significa che l’interposizione pubblica è salita di circa 10 punti, ovvero più che in Italia e Portogallo, che già si erano mosse in modo più statalista di Irlanda e Spagna”.
Dunque, c’è un’austerità che ha funzionato (Irlanda) e c’è un’austerità “autolesionista” che non può funzionare, quella greca. Le conclusioni di Ricolfi sono semplici: chi è riuscito a ridurre la presenza dello Stato “fatta di tasse, spese e burocrazia”, può sperare di vedere il segno più negli indici della crescita. “Chi non ha il coraggio di farlo e punta tutte le sue carte sul prolungamento indefinito della solidarietà europea, difficilmente potrà raccogliere i frutti dell’austerità, per quanto grandi siano i sacrifici che impone ai propri cittadini”.
Francesco Ferraro