In questi mesi ho cercato di offrire una informazione corretta e riflessioni critiche quantomeno fondate su alcuni passaggi fondamentali della nostra vita universitaria, guardando in particolare alle procedure dell’Abilitazione scientifica nazionale e alle possibili conseguenze che le scelte effettuate in quella sede potranno avere sul futuro del nostro reclutamento. Sulla scorta delle analisi disponibili e di una comparazione con altri sistemi, ho cercato di mettere in evidenza alcune criticità e punti oscuri delle normative della prassi che si stava imponendo, e ho proposto qualche variazione che non snaturasse per l’ennesima volta un’amministrazione universitaria che ha bisogno urgente di ricominciare a funzionare a “velocità di crociera”.
Ultimamente, però, mi sto chiedendo a che cosa possa servire questo sforzo di informazione corretta, se il livello di informazione che si assume debba aver raggiunto chi vuole interessarsi di questioni universitarie appare assai meno diffuso di quanto previsto. Alcuni esempi di trattazione giornalistica sulla questione tratti dai quotidiani a maggiore diffusione nazionale, infatti, dimostrano come negli interventi e nelle ricostruzioni sia ammissibile una sciatteria che solo l’ignoranza condivisa di giornalisti e pubblico può far sopravvivere.
È ormai di qualche settimana fa l’articolo di Repubblica in cui Giovanni Valentini rende noti gli esiti di alcuni ricorsi al TAR sui giudizi negativi ricevuti dai candidati all’ASN. Nel suo testo, la ricostruzione dell’intera procedura risulta però quanto mai fantasiosa: le verifiche della qualità dei curriculum e della produzione scientifica degli aspiranti professori associati e ordinari, effettuate nella realtà per soli titoli, diventano infatti delle vere proprie “prove” d’esame, che hanno generato altrettanto fantomatiche “graduatorie”, che ora il TAR con i suoi provvedimenti stava “ribaltando” (il che sarebbe stato possibile solo se effettivamente le graduatorie fossero esistite, mentre ogni abilitazione valeva come le altre, e le sentenze hanno per ora riguardato soltanto i casi di candidati esclusi per i quali si chiede la revisione dei giudizi). E perché tutto questo avverrebbe, secondo il giornalista? Perché i “potenti ‘baroni’ universitari” avrebbero ottenuto di rivedere “ex post” i “criteri oggettivi e meritocratici previsti dalla riforma ministeriale”, al fine di favorire i loro “figli o allievi” rispetto a “studiosi già noti e apprezzati nelle relative discipline”. Lasciando da parte il fatto che al momento dell’approvazione le pagine di Repubblica riportavano giudizi un po’ diversi sui provvedimenti fatti approvare dalla giustamente vituperata Mariastella Gelmini, quello che conta è che tutta questa ricostruzione è inventata e non poggia su alcun dato di fatto: le commissioni hanno istituito, settore per settore, i loro criteri specifici prima di procedere alle valutazioni, e i problemi sorgevano proprio da quanto questi criteri fossero discutibili e tra loro divergenti al mutare della commissione, oltreché dalla rigidità di gestione insita nella scelta di dare questo peso a settori disciplinari spesso interpretati come compartimenti stagni.
In conclusione per redigere un articolo su una questione di rilievo, ospitato su un quotidiano tra i più influenti in Italia, l’autore non ha ritenuto opportuno accedere a uno straccio di documentazione o di informazione reale, e ha pensato che fosse sufficiente costruire nella sua testa quello che credeva fosse successo, sulla base di pregiudizi inveterati e fortunati stilemi retorici contro i quali evidentemente non è stato sviluppato il minimo schermo culturale. I fondamenti culturali sono ancora una volta quelli ravvisabili nell’inconsapevole distorsione di cui si sono resi responsabili i mezzi di comunicazione quando hanno ritenuto di dover denunciare come vittima di ingiustizie concorsuali il prof. Marco Lanzetta e come “raccomandata” la figlia dell’allora ministro del lavoro Elsa Fornero perché, a con curriculum professionali comparabili, rivestivano esattamente lo stesso ruolo accademico. Così, infatti, tornano a posto i pezzi della ricostruzione. Come si viene assunti all’università? Tramite prove concorsuali. Perché i risultati sono insoddisfacenti? Perché i “baroni” li truccano fraudolentemente. Da un secolo e mezzo l’università si descrive così, che sia vero o no, perché le cose dovrebbero cambiare proprio adesso?
A Valentini non è nemmeno venuto il dubbio che, se c’è stata da poco una riforma, qualcosa poteva pur essere mutato in tutto questo quadro, e quindi sarebbe valsa la pena chiedere a chi ne sapeva più di lui, prima di esporsi al pubblico ludibrio. E il risultato è stato così quello di pubblicare una pagina di carta straccia, che non permette di formulare alcun giudizio sulla situazione (la quale effettivamente meriterebbe attenzione per la sua gravità) delle nuove pratiche di reclutamento universitario, perché non raggiunge il livello minimo di decenza nell’esposizione dei fatti.
La pronta replica a Valentini, giustamente condita di amara ironia, da parte della redazione di ROARS, poteva far pensare che la prossima volta un giornalista intenzionato a metter mano al tema stesse più attento. E invece le poche parole sensate spese finora sulla questione ASN sono passate senza lasciare alcuna traccia. È del 7 maggio infatti l’articolo di cronaca del Corriere della Sera in cui Andrea Galli informa di un presunto caso di plagio che riguarda l’ASN in termini un po’ spiazzanti. Certo il titolo del pezzo, “Copia all’esame per diventare professore universitario”, potrebbe essere preso per ironico. In fondo, l’immagine di un docente che, in una totale inversione del suo ruolo classico, sbircia sui banchi dei compagni come lo studente discolo, è di sicuro impatto e può servire a dare ancora maggior risalto al comportamento scorretto imputato al professionista. Ma scorrendo il testo si scopre che per l’autore “A febbraio, a Milano c’è stato un concorso, uno dei tanti, per l’abilitazione al ruolo di professore universitario in Letteratura moderna e contemporanea”. Insomma, il giornalista è davvero convinto che ci sia stata una prova concorsuale, e nel prosieguo del suo articolo si mantiene piuttosto sull’ambiguo, evidentemente perché non ha la minima idea di quale sia la natura dell’elaborato in cui l’accusato avrebbe “copiato”.
Stando a quanto si è potuto capire, allo studioso in questione si imputerebbe di aver inserito nelle sue pubblicazioni sezioni intere di opere scientifiche altrui spacciandole per realizzazioni originali. Se provato, insomma, l’illecito avrebbe contorni ben più ampi di un semplice tentativo di “copiatura” di un elaborato scritto, e investirebbe meccanismi di controllo più complessi della commissione giudicatrice dell’abilitazione, visto che un testo scientifico per essere inserito in una rivista o una collana, e quindi per essere presentabile ai concorsi, deve superare diversi passaggi di valutazione ed essere letto e valutato da un certo numero di specialisti in questo caso assai poco solerti. Ancora una volta, però, quello che conta rilevare nel caso specifico è l’assoluta assenza degli elementi minimi per una informazione adeguata sui fatti.
Sicuramente, queste considerazioni possono essere lette come la reprimenda di un accademico consapevole che nonostante tutto l’università italiana riesce ad essere migliore del paese che la esprime, e capace in alcune sue punte (chissà per quanto ancora) di sopravvivere a un confronto col resto del mondo nemmeno pensabile per la qualità del giornalismo del Bel paese. Se insomma devono giungere critiche alla professionalità del personale dell’istruzione superiore e della ricerca, è semplicemente ridicolo che arrivino da chi non ha avuto un minimo di vergogna ad apporre la sua firma in calce ai pezzi che ho appena commentato, o in generale da una comunità che non ha avuto finora la capacità di individuare, isolare ed espellere queste mele marce, frutto evidente di procedure di reclutamento inefficienti e drogate.
Al di là di questo, però, resta un altro problema ben più sostanzioso. Operatori della comunicazione così sprovveduti, privi della competenza e delle doti professionali minime per valutare e controllare il materiale conoscitivo che viene loro proposto, si rendono facilmente strumento di chi intende imbeccarli per portare avanti i propri disegni di politica accademica attraverso un gioco di delegittimazioni mirate di cui il giornalista responsabile non è neppure consapevole. Dall’altro lato del processo di comunicazione, del resto, si troverà un pubblico che, non avendo alcuna possibilità di accedere a qualcosa di meglio, sulla base di questo materiale non potrà operare le valutazioni e maturare i giudizi consapevoli necessari per qualunque operazione di accountability nei confronti degli operatori delle politiche pubbliche.
Se la comunità scientifica (e non solo quella) si lascia andare a giochi di potere poco trasparenti, una buona dose di responsabilità risiede appunto nell’eccessiva facilità con cui giornalisti incompetenti si fanno usare a questi scopi invece di denunciarli con puntualità e chiarezza. Se si rimprovera il sistema universitario di essere autoreferenziale e staccata dalla realtà, sul banco degli imputati dovrebbe salire in primo luogo chi, col suo lavoro scadente, ha permesso questo scollamento abdicando al suo ruolo di fonte di informazioni attendibili per i cittadini, decisivo in qualunque moderno processo democratico.