Ha fatto rumore la notizia del licenziamento degli otto dipendenti che lavorano per il Partito radicale. L’ennesima difficoltà di uno dei soggetti politici più longevi degli ultimi decenni (la sede di via di Torre Argentina 76, la stessa dal 1991, è tra le poche della Seconda Repubblica sopravvissute) potrebbe ripercuotersi sugli altri soggetti della “galassia radicale”. La notizia dei licenziamenti e della necessità di potenziare l’autofinanziamento, però, ha suscitato malumori tra i militanti e qualcuno – a partire dal segretario dei Radicali Roma Alessandro Capriccioli – si è rivolto al tesoriere del Partito radicale, Maurizio Turco (ha inviato lui le lettere ai dipendenti), chiedendo spiegazioni su alcune questioni interne al partito, compresa la titolarità del simbolo della rosa nel pugno. Per questo, il punto della situazione – anche sulla questione della democrazia interna ai partiti – lo facciamo proprio con Turco.
Turco, possiamo a tutti gli effetti parlare di crisi, almeno dal punto di vista della disponibilità di risorse, del Partito o della “galassia” radicale?
Solo del partito: ogni associazione ha il suo bilancio.
Al momento la situazione esattamente qual è?
Ora abbiamo fatto partire le lettere di preavviso di licenziamento per gli ultimi otto lavoratori dipendenti del Partito radicale – noi abbiamo solo dipendenti, anche per chiarezza di rapporti nei confronti di chi collabora col partito in termini lavorativi e non militanti.
Loro di cosa si occupano?
Curavano le funzioni di segreteria, amministrazione, elaborazione dati, si occupavano delle pulizie, il tutto nella sede di via di Torre Argentina. Tra loro c’è chi è più anziano o meno anziano, i licenziamenti si concretizzeranno tra la fine di luglio e la fine di settembre.
Nella lettera che lei ha reso pubblica sul sito, ha scritto: «Come Partito abbiamo resistito fin che abbiamo potuto, ed anche oltre». Come traduciamo questo «oltre»?
In 500mila euro di debiti.
Nati dalla “rinuncia” ai rimborsi elettorali?
Guardi, noi non abbiamo mai rinunciato ai rimborsi elettorali; noi, a differenza degli altri, abbiamo speso più soldi dei rimborsi ricevuti. Siamo stati gli unici a rispettare non la sostanza, ma la forma della legge.
Nel senso che non vi siete arricchiti con quei soldi?
Mah, non è nemmeno una questione di arricchirsi. Semplicemente, noi li abbiamo considerati davvero “rimborsi”, tanto spendi e tanto ricevi. Bellissimi referti della Corte dei conti spiegano invece che quella normativa parlava ufficialmente di «rimborsi», ma nella sostanza era una maniera “legale” di ristabilire il finanziamento pubblico vigente prima del referendum del 1993. Tanto è vero che il decreto-legge n. 149/2013 nel titolo parla espressamente di «Abolizione del finanziamento pubblico diretto»…
Questo, però, ha fatto sì che in questo momento vi troviate in difficoltà…
No, guardi, non è in relazione a questo… Non abbiamo mai avuto da questo punto di vista soldi che risultavano dalle campagne elettorali – semmai anzi ne abbiamo spesi di più – e tra l’altro abbiamo fatto tutte le nostre campagne referendarie quando la legge non prevedeva i rimborsi anche per i referendum. Tenga poi presenti le dimensioni dell’iniziativa politica radicale (con la struttura radicale) rispetto a quelle degli altri partiti: noi siamo quelli che hanno portato all’Onu e fatto approvare il Tribunale penale internazionale, la moratoria della pena di morte, la moratoria sulle mutilazioni genitali femminili; ora stiamo lavorando sul diritto alla conoscenza, già patrocinato dal Ministero degli esteri. Questa è la nostra dimensione di iniziativa politica, ma a fronte di questo ci sono otto dipendenti…
Che si devono far carico di una mole enorme di lavoro…
Sì, ma è proprio una questione di “partito per la politica”: si dovrebbe fare il confronto con la dimensione di iniziativa degli altri partiti.
Tra l’altro il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito di cui lei è tesoriere, da statuto, non presenta il suo simbolo alle elezioni, ma partecipa solo attraverso liste ad hoc, come la lista Amnistia giustizia libertà del 2013.
Sì; tenga conto che l’ultima volta in cui siamo entrati in Parlamento, nel 2008, siamo stati eletti nelle liste del Partito democratico; al turno precedente, nel 2006 siamo stati presenti alla Camera all’interno della Rosa nel Pugno, insieme ai socialisti.
Quel “cartello” con lo Sdi recuperava la rose au poing, il simbolo adottato in Italia dal Partito radicale a metà degli anni ’70. Ora, vari militanti radicali vogliono sapere chi sia titolare di quel segno e in Rete le notizie non sono molto chiare: di chi è dunque la rosa nel pugno?
Nel congresso di Chianciano del 2011 si è detto che il simbolo è stato ceduto dal Partito radicale alla Lista Marco Panella: la cessione è dello stesso anno, l’ultima volta che il simbolo è stato concesso e usato è stato in occasione delle elezioni regionali in Basilicata, a novembre del 2013. Consideri anche che noi abbiamo sempre avuto il senso della “biodegradabilità” dei simboli: …noi, tra l’altro, abbiamo acquistato il simbolo del sole che ride, lo abbiamo donato agli Amici della Terra, lo abbiamo riacquistato da loro per poi donarlo alle Liste verdi che noi stessi avevamo costituito; il giorno dopo le elezioni regionali del 1985, noi radicali ci dimettemmo dalle associazioni delle Liste verdi per consentire loro di stare nelle istituzioni.
Ah, dunque non lo avete acquistato da Riccardo Schicchi, che mi risultava essere stato il primo a utilizzare in Italia il sole sorridente degli antinuclearisti danesi…
No no, i diritti dai danesi li abbiamo comprati noi, poi è andata come le ho detto.
Tornando alla rosa nel pugno, se non sbaglio la lista Pannella che ora ne è titolare ha un numero molto limitato di componenti…
Guardi, la questione è semplice: se lei va a vedere i partiti registrati secondo le nuove regole di “democrazia interna” previste dal decreto-legge 149 di cui ho parlato prima, in tutti i partiti è previsto che si debba presentare una richiesta di adesione e la stessa cosa accade con la nostra lista. Il tema della “democrazia interna” ai partiti, tra l’altro, mi sta a cuore: nella scorsa legislatura ho presentato sull’argomento il primo disegno di legge e ho fatto due mesi di sciopero della fame per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Bene, in quella legislatura si è discusso a lungo per mesi, poi si è votato e mesi dopo, per chi era al governo l’articolo 49 era stato recepito col decreto 149, lo ha detto persino la Boschi: la cosa era così vera che ora in Parlamento si discute di nuovo sull’attuazione dello stesso articolo della Costituzione…
Ora in quanti siete nella Lista Pannella?
Attualmente siamo rimasti in cinque: Marco Pannella che è il presidente, io, Rita Bernardini, Aurelio Candido e Laura Arconti, militante “storicissima”, che ora ha 92 anni.
Prima della cessione alla Lista Pannella, invece, qual è stata la storia giuridica della rosa nel pugno? Immagino lei sappia che gira voce che lo stesso Pannella avrebbe “sfilato” il simbolo ai socialisti, trattando nottetempo con François Mitterand…
Beh, avendolo comprato prima di loro lo ha sfilato, sì… La questione è questa: c’è un contratto di cessione dei diritti su quel simbolo in Italia a favore del Partito radicale con l’autore del simbolo, che già l’aveva venduto a Mitterand; il creatore l’aveva registrato solo come marchio, non come segno politico, i socialisti evidentemente l’hanno comprato. Il Partito radicale l’ha a sua volta comprato e l’ha mantenuto fino al 2011.
In effetti mi risulta che nel 1981 il tribunale di Roma abbia inibito ai radicali l’uso della rose au poing su ricorso dell’autore del disegno, Marc Bonnet: probabilmente ci si era accordati con Mitterand, ma non ancora con il creatore.
Esatto, evidentemente da una parte c’era l’accordo politico per l’uso del simbolo, mancava però quello con il suo autore, che si è fatto avanti per dire: «Scusate, ma quello è mio».
Ha idea di quanto sia costato?
La cifra esatta non la ricordo, qualcosa come 50 o 60 milioni di lire.
Restando in tema di proprietà, chi è titolare dell’archivio immenso del Partito radicale?
L’archivio è sostanzialmente composto dalle carte di Pannella, da una parte di archivio parlamentare in gran parte digitalizzato (anche se alcune carte le abbiamo conservate) e poi ci sono i documenti che i deputati europei radicali della legislatura 1999-2004, con atto notarile, hanno lasciato alla lista Pannella, che dunque è titolare di questo materiale, avendo pagato. Addirittura l’archivio mio e di Marco Cappato – circa 150 faldoni per ciascuno – vista la qualità, ha goduto anche del finanziamento del Parlamento europeo per la digitalizzazione.
Tornando alla questione dei soldi, non può non colpire il costo della tessera di iscrizione al Partito radicale (o a Radicali italiani): quota minima 200 euro, quota consigliata 365 euro e almeno 590 euro per iscriversi “in blocco” a tutti i soggetti della “galassia radicale”. Un unicum, forse non solo in Italia…
Vede, siamo partiti dalla questione ideale per cui non c’è professione di fede senza l’obolo dello scellino. Dopodiché ci siamo sempre parametrati, più o meno, sul “caffe al giorno”, per cui al tempo la tessera costava 100mila lire. Sembrava apparentemente cara, perché le altre tessere erano regalate. Noi non abbiamo e non avevamo bisogno di costruire nel partito “componenti interne” o “correnti”: la tessera era ed è individuale, per cui al congresso partecipano tutti gli iscritti.
Mi diceva prima che il problema economico attualmente riguarda il Partito radicale, non le altre realtà della “galassia”, giusto?
Vede, quella “galassia” è fatta di tanti soggetti autonomi, non indipendenti poiché sono tutti soggetti costituenti del partito: ognuno di essi ha un suo bilancio, un suo statuto e determinati responsabili, diversi tra le varie associazioni, anche se naturalmente capita spesso che una persona sia presente in più di una realtà. Il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito è comunque il loro “momento di unità”.
Qualche riflesso sulle altre realtà però questa crisi del Partito radicale ce l’ha…
Ce l’ha o lo avrà, in base allo sviluppo della situazione. Se non riusciamo a uscire da questa crisi, tra qualche mese il Partito non avrà più la disponibilità di quel personale, resteranno solo i militanti, ma non significa affatto chiudere il partito. Noi crediamo ci siano ancora ragioni politiche perché il partito viva, nel senso che le sue proposte sono vive oggi, come è riconosciuto anche “istituzionalmente”, ad esempio dal Ministero degli esteri: ora siamo impegnati nella campagna per la transizione democratica e il diritto alla conoscenza: partirà la campagna all’Onu come è accaduto in passato. Detto tutto questo, il nostro è un partito con mille iscritti: uno ci può credere o no, ma c’è una relazione tra l’assenza dalla partecipazione al dibattito pubblico e il calo degli iscritti.
In che senso?
Nel momento in cui si è presenti in tv, si parla, si dialoga e si fa, ognuno può liberamente scegliere o rifiutare qualcosa. Noi però da anni ormai siamo in un situazione non da “zero-virgola”, ma da “zero assoluto”… e ogni volta hanno cambiato le regole: Bruno Vespa, per dire, diceva di non invitarci quando non eravamo in Parlamento quando non c’eravamo, quando abbiamo avuto deputati europei bisognava stare nel Parlamento italiano, quando eravamo nel gruppo del Pd parlavano solo i gruppi e noi mai. Ora se fanno un’iniziativa l’Italia dei valori o CasaPound li si fa parlare, i Radicali assolutamente no: eppure lo stesso articolo 49 dovrebbe prevedere un regime ben diverso, siamo stati contro il finanziamento pubblico ma non contro la partecipazione pubblica, volevamo che i partiti ricevessero strumenti, non denaro. Quando siamo stati presenti nelle aule parlamentari, siamo riusciti ad agire in modo più efficace, ma avere spazi pubblici anche in quei casi è stato molto difficile far sapere e far “passare” il nostro punto di vista.
Tra le iniziative per aiutare il Partito radicale, c’è anche Astaradicale.it, con la vendita online di “pezzi di storia” dei radicali e in fondo della stessa Italia politica.
Sì, è un’iniziativa non del Partito, ma di Radicali italiani, che ha scelto di devolvere la metà degli incassi dell’asta alla “causa” del Partito.
Asta a parte, come si può uscire da questa situazione?
Ancora una volta, con l’autofinanziamento, ma la conquista dell’autofinanziamento passa soprattutto attraverso la conquista di spazi di informazione. Abbiamo fatto varie denunce, ormai tutte più o meno archiviate, nei confronti dell’AGCOM perché ci pare abbia un’idea “strana” della parità di accesso ai mezzi di informazione. Non è nemmeno questione di visibilità, ma di diritto dei cittadini a conoscere: se i cittadini non conoscono, gli si impone di fatto una scelta, la “scelta di non scegliere”. Oggi, di fatto, se si chiede a un “cittadino della strada” dei radicali non si sa cosa può rispondere, se esistono ancora, se si sono ritirati o sono scappati…
Quali sono gli obiettivi immediati?
Abbiamo bisogno innanzitutto di rientrare dai debiti accumulati essenzialmente nei confronti di persone, non paghiamo gli stipendi da febbraio. Questo ci permetterebbe di riprendere l’attività e l’ideale sarebbe avere i denari che ci permettano di convocare un congresso transnazionale delle dimensioni degli ultimi, con circa 400-500 persone: ne abbiamo bisogno, soprattutto ora con questa campagna sulla transizione democratica che si rivolge innanzitutto al mondo arabo ma non solo, visto che molti dei nostri paesi ormai sono a “democrazia reale”, in tradimento della vera democrazia.
La prima “scadenza” per voi qual è?
L’incontro verso la transizione democratica che ci sarà il 27 luglio in Senato, nell’aula della commissione Difesa: ci sarà sicuramente anche il ministro Gentiloni, il cui ministero ci ha dato anche il patrocinio. Stiamo cercando di coinvolgere innanzitutto quella parte del mondo arabo che crede nello stato di diritto, nella democrazia, nella laicità, nel federalismo e nei diritti umani. Credo che quest’iniziativa sia un po’ il “precipitato storico” di quanto abbiamo fatto come partito in questi decenni.
Difficile riuscirci senza soldi però.
Già, tutto si tiene o tutto non si tiene… per ora abbiamo conquistato la possibilità dell’evento il 27 luglio; a settembre poi, avendone la possibilità, vorremmo portare l’iniziativa all’Onu e ci piacerebbe che diventasse una campagna dello Stato italiano, come è avvenuto in passato.
Visto il respiro internazionale dei progetti, peccato che Emma Bonino non sia più ministra degli Esteri…
Eh, è un peccato sì… sin dall’inizio si era capito qual era il problema: c’era bisogno di volti nuovi e anonimi, senza storia possibilmente. Adesso per fortuna alla Farnesina c’è Gentiloni, che mi pare sia molto attivo e abbia una particolare attenzione ai temi “costitutivi” del Partito radicale, quindi possiamo ripartire da questa iniziativa del 27 e dalla necessità di rendere i cittadini partecipi e consapevoli di ciò che sta accadendo. Le parole d’ordine più rilanciate e fortunate, su qualsiasi tema, specie su quelli legati alla democrazia e alla libertà, oggi sono quelle di Salvini e della Meloni: non è colpa loro, hanno il diritto di dire e fare quello che dicono e fanno, il fatto è che non pare ci sia un dibattito. Si sente una sola voce, che predomina, magari parla in collegamento, fa un comizietto e se ne va: sono tutte scelte ben ponderate, nulla è lasciato al caso.