Il faro grigio scuro, con il suo fascio di luce giallo, alla fine è rimasto; il contesto invece è almeno parzialmente cambiato. Di certo, il risultato delle elezioni in Veneto non sembra avere scoraggiato Flavio Tosi, sindaco di Verona e già soggetto di punta della Lega Nord, prima dei suoi screzi con il segretario del Carroccio Matteo Salvini, che hanno portato all’espulsione dalla Lega e alla candidatura alla guida della regione. Alla fine è arrivato quarto, a un’incollatura di voti dal candidato del MoVimento 5 Stelle Jacopo Berti (che ha ottenuto 262.749 preferenze, a fronte delle sue 262.569); a Tosi, però, interessa soprattutto rimarcare l’11,9% dei consensi ottenuti, più del 10,7% relativo alla coalizione di liste a sostegno, compagine formata pur sempre in extremis, negli ultimi giorni disponibili per la campagna elettorale.
Certamente quell’esperimento poteva andare meglio, qualche voto in più poteva essere raccolto, ma Tosi probabilmente ha voluto conservare la parte positiva. Il simbolo che era andato meglio, in fondo, era proprio quello con la luce del faro, cioè la “sua” lista Tosi, sperimentata a Verona e riadattata in chiave regionale. Quel 5,7% non era poi così male, per un emblema nato in una città e che si era tentato di esportare in tutta la regione, sapendo di doversi misurare innanzitutto con il partito di provenienza di Tosi, quella Lega che puntava senza troppa difficoltà alla riconferma del presidente uscente, Luca Zaia. Si poteva partire da quei numeri per costruire qualcosa di più grande; certo, la strada non appariva tutta in discesa, c’era pur sempre da allargare un progetto all’intero territorio nazionale, senza poter contare su un minimo di seguito certo, ma i “fari” avevano cominciato a spuntare qua e là lungo lo stivale, quindi valeva la pena tentare.
C’era però un’altra pista da considerare. Dopo la lista Tosi e quella di Area popolare, la formazione più votata era stata un’altra lista legata al candidato presidente, ma contenente un messaggio chiaro: “il Veneto del fare”. Quel verbo, usato all’occorrenza come sostantivo, per il sindaco di Verona doveva essere un elemento chiave della sua stessa campagna elettorale: nel sitowww.tosipresidente.it, fino a qualche giorno fa, campeggiava il motto “Siamo abituati a fare”. Perché non ripartire anche da lì, allora, magari unendo i due messaggi che, da soli, si erano conquistati oltre il 7% dei voti in Veneto? Bastava mettersi al tavolo e pensare a una soluzione…
Alla fine, la soluzione è arrivata, almeno per ora. Stavolta il faro torna per intero, con la sua luce, su un fondo bianco; il nome di Flavio Tosi non è sparito, ma è relegato in fondo, in un segmento leggermente curvo e giallo come la luce. L’elemento più evidente, però, è senz’altro la parola “FARE!”, gialla e bordata di nero, con il claim già visto che nei manifesti si trasforma appena, “siamo pronti a fare” (perché ora non basta l’abitudine, adesso occorrono rapidità e preparazione). E qui, ci si perdoni, ma è fin troppo facile tornare con il ricordo al progetto lanciato temporibus illis da Oscar Giannino, la “piccola pattuglia di rompicoglioni di professione” che avrebbe dovuto pungolare qualunque governo sull’economia, ma è “naufragata su se stessa” dopo la tempesta sui titoli di studio di Giannino e, anche sotto la guida di Michele Boldrin, non si è mai davvero ripresa.
Di fronte a quell’esito elettorale davvero poco felice, due erano le alternative: lasciar stare del tutto quel verbo all’infinito, per non evocare neanche lontanamente echi di sconfitta, oppure rischiare e sperare di dare nuovo significato a quelle quattro lettere. Tosi e i suoi, a loro modo, hanno scelto la seconda opzione: hanno tolto la freccia (ma la luce del faro punta sempre a destra), hanno aggiunto il punto esclamativo e hanno ridimensionato notevolmente il rosso, riducendolo a un archetto che sulla parte sinistra di Fare! con Tosi ha il suo contraltare verde. Un accenno di tricolore che nella Lega, da cui Tosi proviene, non si era mai visto né forse concepito. Anche i dettagli, in un simbolo, contano maledettamente.
Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.