L’ex premier Enrico Letta lo aveva promesso: “Dirò addio al Parlamento ma continuerò a dire la mia“. E così è stato. Il Fatto Quotidiano ha pubblicato oggi in prima pagina un intervento dell’esponente Pd. Letta, mentre discetta di politica, non manca di lanciare frecciatine all’attuale premier Matteo Renzi. Leggendo per interno l’articolo si possono notare alcuni riferimenti a fatti politici attuali come il caso Crocetta, la vicenda di Roma e il “salvataggio” del senatore Azzollini.
Insegnare la politica significa, anche, insegnare a vivere. A vivere con la schiena dritta, direi. È l’impegnativa conclusione cui approda la bellissima analisi di Maurizio Viroli pubblicata sul Fatto qualche giorno fa.
L’articolo trae spunto dalla mia Scuola di Politiche e poi si sofferma sul senso di una simile idea. Prima di tutto, le motivazioni: è indispensabile – dice Viroli – trovare una sintesi virtuosa tra un altruismo sganciato dalle aspirazioni personali e un egoismo schiacciato sul tornaconto individuale.
C’è una rappresentanza figlia delle liste bloccate, per le quali pesano più le logiche di fedeltà al capo che la competenza o la competizione tra proposte. C’è una classe politica sovente morbida rispetto a un modello alla House of Cards, fatto di intrighi e macchinazioni, disprezzo della parola e scarsa trasparenza.
C’è una mutazione genetica del sistema dei partiti, che in Italia, anche nel campo del centrosinistra, si sovrappone al l’eredità tossica del ventennio berlusconiano e si traduce nella personalizzazione esasperata delle leadership, nell’egotismo, nell’ossessione per il consenso immediato, nell’umiliazione dei corpi intermedi ridotti a ruoli al massimo ancillari. Mi capita di discuterne spesso negli ultimi tempi. E ogni volta il retropensiero corre alla vicenda di cui sono stato protagonista. Legittimo, ma riduttivo.
Perché, al di là delle implicazioni personali, ciò che a me sembra sfuggire al dibattito è la non convenienza di questo modello per la collettività. Ci si rifugia dietro una malintesa e relativista realpolitik, quasi fosse una condanna. Si omette, però, di dire che assai di rado l’Italia ha dimostrato al mondo di essere nazione e comunità. Il nostro senso dell’in – teresse nazionale è opzionale, sbiadito.
In più, assistiamo a una rincorsa all’approssimazione e alla mancanza di rispetto reciproco che rischia di travolgere tutti, anche gli alfieri di questo stesso modello, perché, se i freni saltano, ci sarà sempre qualcuno di più furbo, di più spregiudicato, di più incline alla demagogia a guadagnare la testa della corsa.