Il recente intervento critico di Matteo Renzi in difesa dei partiti, sulla questione delle nomine nel Cda Rai, riapre una polemica tra le più discusse nel dibattito pubblico degli ultimi anni. Sono ormai lontani i tempi del partito come imprescindibile e sacro luogo di formazione, politica ma anche culturale e umana. I partiti di massa, che – attraverso circoli, sezioni, ma anche feste e momenti di aggregazione popolare – svolgevano un’importante funzione di socializzazione per i militanti, sono di fatto estinti. E per quanto le voci critiche vi abbiano visto caratteri di indottrinamento, non si può non riconoscere il notevole contributo apportato proprio dai partiti “storici” al processo di alfabetizzazione politica delle masse, plasmando coscienze (critiche) e tramandando per decenni delle identità ideologiche.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, una serie di spinte esterne (tramonto delle ideologie, crollo dei regimi socialisti) e interne (Tangentopoli, i referendum promossi da Mario Segni, insostenibilità dei costi della politica) hanno progressivamente incrementato la disaffezione popolare verso i partiti. A fare il resto, poi, è stato l’emergere di una serie di soggetti che si contraddistinsero subito per le loro proposte innovative, ponendosi come un riferimento concreto per quella crescente fetta di elettorato ormai stufa del “vecchiume” rappresentato dall’obsoleta classe politica tradizionale. Due classici esempi: le varie “leghe” settentrionali poi aggregate da Umberto Bossi sotto il simbolo del Carroccio e, ovviamente, Forza Italia. In particolare, fu proprio la creatura politica di Silvio Berlusconi a guidare questa transizione, cavalcando il forte malcontento popolare dell’epoca.
Annientare le logiche tradizionali e farsi portavoce di una nuova concezione dei rapporti politici: questi gli intenti primari che si era predisposto il Cavaliere, il quale diventava così un vero “imprenditore innovatore” (come lo avrebbe probabilmente chiamato Schumpeter) abilmente in grado di spostarsi dai mercati finanziari al mercato elettorale, e costringendo gli avversari a invertire completamente la rotta delle loro strategie quando era comunque troppo tardi. E così, nonostante la breve durata del suo primo governo, Berlusconi aveva pienamente centrato il suo obiettivo.
Negli anni successivi, innumerevoli sono stati – a destra, centro e sinistra – i tentativi di riproporre formazioni politiche di ogni sorta, tutti però aventi come comune denominatore lo scollamento – orgogliosamente rivendicato – dal concetto di “partito”, simbolo del male assoluto. Basti pensare all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, ai vari Patti nati dal già citato Segni, fino allo stesso Ulivo di Romano Prodi, pensato proprio al fine di ampliare lo spazio politico di riferimento, ancora troppo militante. Non è un caso che il Professore fu l’unico a far vincere il centrosinistra. Eppure, queste aggregazioni hanno assunto con il tempo le caratteristiche tipiche di un partito, smentendo con i fatti le ambizioni iniziali. I casi più recenti, inoltre – da Scelta Civica a Rivoluzione Civile, passando per gli “antipartito” per eccellenza, i grillini – dimostrano che l’attivismo “civico” è vivo e vegeto.
L’infinità di scandali di cui gli “uomini di partito” si sono resi protagonisti negli ultimi vent’anni è ovviamente la spiegazione più immediata, quando ci si domanda perché la fiducia nei confronti dei partiti non supera mai, nel complesso, un misero 5%. E allora, dare fiducia alla società civile si rivela come l’ultima spiaggia per sfuggire al cannibalismo indiscriminato da parte di questo pantagruelico mostro che è il partito. Così, come ha ben evidenziato il filosofo Michele Prospero qualche anno fa, “ad una politica che assume il volto truce dell’affarista che deforma la logica dell’intermediazione partitica si contrappone la società civile declinata come altruistico luogo della trasparenza”.
Il fatto è, però, che anche l’operato della tanto decantata società civile non è apparso, a tutt’oggi, particolarmente encomiabile. Carenze evidenti non sono sorte soltanto nella gestione delle policies (la bocciatura della riforma Fornero – vanto del governo Monti, civico per eccellenza – da parte della Corte Costituzionale ne è un clamoroso esempio) ma anche dal punto di vista etico, con arrestati, indagati e procedimenti penali ancora in corso. La moda della società civile si è recentemente imposta anche nell’area della sinistra radicale (per tradizione la più restia a ingerenze esterne al partito) attraverso l’esperienza della lista “L’altra Europa con Tsipras”. Il comportamento non proprio lodevole di Barbara Spinelli – che ha scelto quasi in solitudine i candidati alle elezioni europee, accettato il seggio contrariamente a quanto annunciato per tutta la campagna elettorale e infine abbandonato la lista Tsipras dichiarandosi indipendente – ha provocato durissime reazioni tra i suoi ex alleati, a molti dei quali viene l’orticaria solo a sentire pronunciare l’espressione “società civile”. Lo dimostra la freddezza riservata a Possibile, la nuova formazione di Pippo Civati che ripudia apertamente la definizione di “partito”.
Così anche Matteo Renzi, in fase di post-rottamazione, sembra aver ridimensionato la sua ambizione di trasformare il Pd in un soggetto simile al Partito Democratico americano, sia nella struttura organizzativa che nei rapporti con l’esterno. Complice anche la sempre più vistosa frattura interna, il Presidente del Consiglio si sta rendendo conto, giorno dopo giorno, che l’apporto del partito che negli anni ha tanto attaccato si rivela ora assolutamente fondamentale. Non è un caso che molti fra gli ex denigratori del partito – nel quale identificavano il male assoluto – si sono riscoperti oggi difensori dello stesso, scoprendo in esso un argine contro il dilagare di pericolosi populismi. Alla luce di una breve disamina storica, non si può certo negare che anche questo sia stato un compito fondamentale dei partiti. Quindi, senza scomodare divaganti pseudo-teorie sulla ciclicità della storia, possiamo affermare che ha senso oggi riscoprire l’importanza del partito politico.
Al netto della questione morale (in relazione alla quale si è mostrato il peggio – è innegabile), il partito può ancora costituire un utile strumento di partecipazione democratica al dibattito politico. Per due motivi fondamentali. Anzitutto, per la capacità di filtrare le molteplici domande che arrivano dall’elettorato, valutandole e trasformandole poi in politiche pubbliche. È difficile immaginare un processo di elaborazione e formazione di una politica pubblica in sede parlamentare senza un soggetto intermedio (gatekeeper) che attui una minima selezione delle tematiche da portare avanti, onde evitare un congestionamento continuo dei processi decisionali.
La seconda motivazione risiede nel garantire, almeno potenzialmente, una minima stabilità del sistema politico. Basta dare uno sguardo in chiave comparata per verificare che le realtà più problematiche dal punto di vista della stabilità politica sono le stesse caratterizzate da un’estrema fluidità del sistema partitico. Tra queste, prendiamo ad esempio due contesti politici a noi vicini: la Grecia e l’Italia stessa, che hanno visto avvicendarsi, solo nell’ultimo quindicennio, rispettivamente 8 e 9 esecutivi, con sette diversi Presidenti del Consiglio. Durante analogo lasso di tempo, la Germania ha conosciuto appena due cancellieri, mentre i primi ministri inglesi sono stati solo tre, lo stesso numero dei capi di governo in Spagna dal 2000 ad oggi. Sono numeri che parlano da soli, e che danno un’idea chiara della correlazione esistente.
È quindi ancora possibile la “democrazia dei partiti”? Assolutamente sì, a patto che il precario assetto relativo ai rapporti tra (e dentro) i partiti venga puntellato da una serie di misure tese a restituire loro un sufficientemente dignitoso livello di fiducia popolare. Anzitutto, potrebbe giovare una riformulazione del finanziamento pubblico che i partiti ricevono, verso il quale è più che legittimo dirsi contrari. Ma un’abolizione totale rischia, in una logica di medio-lungo periodo, di allargare ulteriormente il divario fra la classe politica e il cittadino, rendendo la possibilità di concorrere nell’agone elettorale esclusivo appannaggio delle categorie più abbienti. È opportuno poi tenere in considerazione un altro tema, quello relativo alla democrazia interna ai partiti. Un numero sempre crescente di studiosi – tra gli altri, ne parla approfonditamente Salvatore Bonfiglio nel saggio I partiti e la democrazia (il Mulino, 2013) – sostiene l’impellenza di una riforma dell’art.49 della Costituzione, mirata a introdurre il “metodo democratico” anche dentro i partiti stessi, sull’esempio di quanto avviene in Germania. In questo modo, si riuscirebbe ad incrinare le eccessive verticalizzazioni che sussistono all’interno della maggior parte dei soggetti politici italiani (anche extraparlamentari). Senza contare che il anche cittadino ne guadagnerebbe in termini di trasparenza e onestà.
Quello sull’effettiva utilità dei partiti nella società della disintermediazione è un dibattito che ha ormai assunto dimensioni ampie. Valutazioni di ogni tipo sono state fornite per sostenere i pro e i contro, non senza prese di posizione dettate dalla comodità del momento. Quel che appare certo, però, è che dei partiti politici non ci libereremo facilmente. Essi rappresentano parte integrante del nostro capitale sociale, strumento fondamentale in grado di veicolare gli input provenienti dall’elettorato per trasformarli in risultati concreti. È fuori di dubbio che finora non abbiano svolto al meglio questa funzione, e che chiunque abbia tutto il diritto di palesare la propria indignazione. Ma urlare ai quattro venti frasi come “i partiti devono scomparire tutti” altro non è che un mero esercizio retorico, che fa male alla democrazia.
Antonio Folchetti