“Siamo dei deportati”, quando una professoressa non sa esprimersi
deportare v. tr. [dal lat. deportare (comp. di de– e portare «portare»), attraverso il fr. déporter] (io depòrto, ecc.). – Condannare alla pena della deportazione; più com., trasportare, accompagnare il condannato nel luogo stabilito per la deportazione: molti ergastolani furono deportati nelle Piccole Antille; al tempo degli zar, i condannati politici venivano spesso deportati in Siberia. Per estens., trasportare nel luogo di pena, quando questo sia fuori dei confini della patria: Pellico fu deportato nella fortezza dello Spielberg; anche, trasferire coattivamente in campi di lavoro o di concentramento (talora anche di sterminio) lontani dalla madrepatria gruppi o masse di cittadini, perché invisi o sospetti, o come misura di carattere politico o militare, in periodo bellico o d’occupazione: durante la seconda guerra mondiale, ingenti masse di Ebrei sono state deportate nei Lager nazisti. ◆ Part. pass. deportato, anche come s. m. (f. –a), chi è condannato alla deportazione o ne sconta la pena: il convoglio dei deportati; una colonia di deportati; un deportato politico.
da Treccani.it
Se la professoressa Marcella Raiola avesse consultato un dizionario di italiano (per un insegnante di latino e greco questa dovrebbe essere una pratica quotidiana) prima di inviare una lettera a Repubblica in cui definiva “deportati” i professori costretti dalla riforma della Scuola a trasferirsi da Sud a Nord per lavorare, forse sarebbe stato meglio. Qui di seguito mettiamo un estratto della lettera della professoressa.
Caro direttore, ho 44 anni e da 13 faccio con passione l’ insegnante pendolare. Insegno Latino, Greco e materie letterarie nei licei classici della provincia di Napoli, e poche volte ho lavorato a meno di 25 km da casa. Sono laureata e abilitata con il massimo dei voti e ho conseguito un dottorato di ricerca in Filologia. Sono iscritta in graduatorie che per legge sono provinciali, non nazionali e ho pieno titolo all’ assunzione. Da 13 anni accumulo punteggio lavorando da “ultima arrivata”, con studenti, colleghi, dirigenti sempre diversi, e con meno diritti.
A differenza di tanti altri, poche volte mi è capitato di lavorare su uno spezzone orario, cioè a stipendio ridotto, oppure su due o tre scuole. Non ho, come tantissimi miei colleghi di età compresa tra i 40 e i 55 anni figli piccoli, disabili, genitori anziani o casa appena comprata con mutuo, ma ugualmente non ho prodotto la famigerata domanda di deportazione.
“Deportare” è una parola forte, è vero, ma è affiorata spontaneamente alle labbra di lavoratori precari da dieci o addirittura venti anni, con alle spalle peregrinazioni in varie regioni e grandi sacrifici, sia per l’ aggiornamento (a carico nostro) che per la maturazione di un punteggio che ora viene azzerato e vanificato.
Le parole della professoressa hanno raccolto anche lo sdegno del direttore di La7 Enrico Mentana.
Deportazione: pazzesco. Se coloro che devono insegnare ai ragazzi italiani il corretto uso della loro lingua si…
Posted by Enrico Mentana (pagina ufficiale, bis) on Martedì 18 agosto 2015