Nei giorni scorsi sono stati amministrati alcuni dei test per gli studenti delle scuole primarie e secondarie elaborati dall’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione (INVALSI). L’obiettivo è quello di comparare a livello nazionale i livelli di apprendimento delle strutture linguistiche e logiche fondamentali da parte degli studenti. Si è trattato, come ogni anno, di un periodo di polemiche striscianti, con l’organizzazione di scioperi per far saltare la contemporaneità delle prove, e critiche incrociate tra i rappresentanti di numerose sigle sindacali dei docenti, generalmente contrarie a quello che considerano un tentativo di valutare la complessità del processo formativo la “gabbia” di un “quiz”, e una parte cospicua dell’opinione informata pronta ad accusare la “corporazione” della scuola di “avere paura di farsi valutare” perché consapevole della propria scarsa qualità professionale media e del potenziale dirompente dell’accertamento di certe mancanze.
Da un lato, quindi, ci si trova di fronte a meccanismi di difesa piuttosto rozzi, pretestuosi e in parte infondati: i test di rilevazione statistica che saggiano le abilità fondamentali degli studenti sono una pratica informativa diffusa e ormai consolidata, che ha contribuito a migliorare molti sistemi d’istruzione. Tuttavia, quando questi meccanismi di difesa si manifestano, alla base si trova spesso un problema profondo e concreto. Persino la natura che si vuole “corporativa” della reazione dovrebbe far riflettere: le tanto bistrattare corporazioni sono state uno strumento importante di riequilibrio dei rapporti economici e di consolidamento degli standard professionali prima che il potere statale acquisisse le funzioni regolative che gli sono propri, e gli atteggiamenti “corporativi” ritrovano spazio proprio quando lo Stato abdica al suo ruolo o si dimostra incapace di svolgerlo.
In effetti, già le interpretazioni sul procedimento offerte dal mainstream giornalistico sono significative.
Come ogni rilevazione di natura informativa, le valutazioni raccolte possono essere significative come punto di partenza per comprendere la situazione esistente e per elaborare strategie migliorative, o all’interno delle singole sedi, che allora dovranno essere dotate degli strumenti necessari alla piena autonomia progettuale e al coinvolgimento del personale nei nuovi obiettivi, o meglio ancora su base territoriale. Questa è la prassi potenzialmente più fruttuosa per l’utilizzo di questi procedimenti di valutazione, soprattutto di fronte a risultati non soddisfacenti, come giustamente ha messo in evidenza in un’articolata presentazione un rapporto della Fondazione Agnelli.
Invece, la tendenza italiana sembra essere quella di affidare alle rilevazioni l’individuazione dei “lavativi” da “bonificare” nel corpo docente, o le strutture scadenti da “punire”, in un’ottica esclusivamente conflittuale sicuramente inasprita dalla vischiosità di un sistema di reclutamento e di conferma nei ruoli della docenza molto vischioso e rallentato. Se insomma i docenti, nella difesa delle prerogative di ruolo e nella rigidità per l’accesso ad esse, hanno finito per costituire un “corpo” compatto e individuabile, ora devono essere di nuovo frammentati attraverso una politica di valutazione che senza fallo dividerà buoni e cattivi, oppure dovranno subire tutti indiscriminatamente la mise au pas che, di fronte a un sistema scolastico generalmente di qualità tutt’altro che eccelsa, dovrà essere assicurata ai “responsabili” dei cattivi risultati.
Questo atteggiamento sembra peraltro essere tutt’altro che un fraintendimento opera di giornalisti solitamente assai meno competenti dei professionisti che giudicano con tanta facilità. Anche tra i massimi promotori delle pratiche gestite dall’INVALSI sembra infatti essersi fatta strada l’idea che la valutazione debba di per sé, per il solo fatto di essere implementata, imporre e uniformare i comportamenti “corretti” tra gli operatori del settore. E questa attitudine d’insieme non è nuova nelle pratiche della burocrazia del ministero dell’Istruzione, università e ricerca, generalmente orientata (lo si è visto bene nelle vicende che contornano la Valutazione della qualità della ricerca per gli istituti universitari) a considerare le pratiche conoscitive non come punto di partenza, ma come punto di arrivo. Invece di essere la base su cui mettere a punto strategie migliorative, da quelle parti è molto più facile usare le raccolte di informazioni per individuare i presunti colpevoli individuali delle carenze del sistema che sarebbe troppo costoso e laborioso mettere a posto sul serio, e per trovare giustificazioni al taglio di fondi e di cattedre, senza nemmeno sapere se e come i dati acquisiti sono o meno idonei a conclusioni relativi ai singoli casi e quali possono essere le implicazioni. Molti docenti, nella loro diffidenza verso i test INVALSI, si difendono soprattutto dall’abuso di un loro utilizzo come scorciatoia per affrontare questioni serie, e visti i precedenti questo atteggiamento sarà giustificato finché dal centro non si metteranno le carte in tavola su intenzioni e feedback a livello di scelte politiche con la necessaria trasparenza.