Una riforma piccola piccola
Riprende a Palazzo Madama l’iter di approvazione del disegno di legge costituzionale che ridefinirà l’architettura della Repubblica con il “superamento del bicameralismo paritario e [la] revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione”. Contro la riforma sponsorizzata dal Governo si sono alzate, da destra a sinistra passando per i portavoce di Grillo, le banali accuse di aprire la strada all’autoritarismo del premier, alla “democratura”.
Non si capisce perché, invece, nessuno voglia denunciare la modestia di una piccola riforma priva della visione organica capace di segnare lo strutturale cambiamento annunciato quando il disegno di legge fu presentato al pubblico.
È stato un eccesso di prudenza non prendere in considerazione il passaggio al monocameralismo, con la funzione legislativa riservata alla Camera dei Deputati. Una buona riforma, infatti, non avrebbe assegnato la funzione di controllo e coordinamento ad una seconda camera, ancorché non elettiva ma, sull’esempio del Bundesrat tedesco o, in certi termini, del Consiglio dell’Unione Europea, le avrebbe delegate alla Conferenza Stato-Regioni, elevandola, con le opportune modifiche, a organo costituzionale. Lo scorso anno Guido Crainz, denunciando il declino del Senato, aveva ricordato che anche il comunista Terracini, già Presidente della Costituente, sin dagli anni Settanta, ne proponeva la completa soppressione.
La normalità del monocameralismo (quindici Stati UE) rispetto all’elezione diretta della seconda Camera (quattro Stati UE) è stata anche ribadita da Paolo Mieli sul Corriere in questi giorni.
A segnare gli ulteriori limiti di questa riforma, è mancato un intervento sistemico sulle venti Regioni, incontrollati centri di sprechi e origine dei principali scandali che hanno riempito le cronache degli ultimi anni. Pur modificando la distribuzione delle competenze, s’è rinunciato, dal principio, a ridimensionarne ruolo, funzioni e, soprattutto, numero. La Repubblica conserverà il proprio elefantiaco apparato regionale mentre, in Francia, François Hollande è riuscito a far passare una riforma che riduce il numero dalle regioni da ventidue a tredici e, in Germania, Angela Merkel, ragiona di dimezzare i sedici Länder della Bundesrepublik.
La democrazia italiana non è in pericolo, come grida pretestuosamente chi, per calcolo di parte, attacca la riforma in discussione. Ma, sprecando anche questa occasione, le istituzioni democratiche rischiano di perdere l’ultimo residuo di credibilità. Forse il premier avrebbe dovuto mettere da parte la fretta e spiazzare tutti proponendo una riforma epocale nella sua sostanza, oltre che nelle slides di Power Point..
Andrea Enrici