Prontuario contro la perdita della memoria storica: Umberto Eco e il pronome abusato

Pubblicato il 14 Settembre 2015 alle 15:44 Autore: Riccardo Piazza
umberto-eco

Il Tu conviviale imperante, figlio della tradizione trobadorico-guascona contemporanea, il Lei formale di matrice rinascimentale e spagnola e perfino il Voi letterario presente nel Medioevo e nella letteratura ottocentesca. Queste le tematiche su cui si è soffermata la riflessione di Umberto Eco durante una lectio magistralis dal titolo “Tu, Lei, la memoria e l’insulto” riproposta sulle colonne del quotidiano “La Repubblica”.

Quel pronome abusato che appiattisce il tempo

“Vi chiederete perché lego il problema dell’invadenza del Tu alla memoria e cioè alla conoscenza culturale in generale. Mi Spiego. Ho sperimentato con studenti stranieri, anche bravissimi, in visita nel nostro paese grazie al progetto Erasmus, che dopo aver avuto una conversazione nel mio ufficio, nel corso della quale mi chiamavano Professore, poi si accomiatavano dicendo Ciao”. Secondo l’esimio professore di semiotica dell’Università di Bologna, il peso specifico del pronome d’allocuzione informale Tu, sarebbe diventato ormai una vera e propria spina nel fianco non soltanto per coloro che dell’ambiente accademico respirano ogni giorno le atmosfere da studenti, ma anche per la società civile a tutto tondo. Il pronome Tu, seguendo i ragionamenti di Eco, appiattirebbe troppo l’immediata realtà facendoci perdere la cognizione di ciò che è stato, ma soprattutto il corretto collocamento degli eventi all’interno della linea dell’esistenza: “Il problema del Tu generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati”.

La mediazione perduta

La conseguenza più grave per una generazione non più mediata in una scansione temporale, la quale distingue grazie alle dovute caratteristiche dei codici del tempo fisico misurabile e del tempo della mente percepito, passato, presente e futuro, ma prepotentemente inchiodata all’interno della gabbia dell’”iperpresente” da social network e da palinsesto veloce, sarebbe dunque uno scollamento grammaticale e storico pervasivo. Tale comunicazione di relazione coatta ammetterebbe soltanto ciò che può essere fagocitato in fretta, pacchetti d’informazione filtrata, rimestata, digerita male. Così Umberto Eco: “Da tempo, a un giovanotto sui quarant’anni che entra in un negozio, il commesso o la commessa della stessa età apparente, cominciano a dare del Tu. In città il commesso ti dà evidentemente del Lei se hai i capelli bianchi, e possibilmente la cravatta, ma in campagna è peggio: si è più inclini ad assumere costumi televisivi senza saperli mediare con una tradizione precedente[…]”.

Il lessico di Dante per salvare il salvabile

L’analisi di Eco pare in definitiva essere prodromica di un doveroso ritorno agli incunaboli della lingua, Dante in primis, alle fonti letterarie pilastri generatori di senso che, nella meravigliosa architettura della lingua italiana eretta nei secoli, eretta ma ancora in divenire sotto la nostra responsabilità, ci hanno ricondotto ad una dimensione culturale odierna ancora potenzialmente plurima, ancora poliedrica, sfaccettata e curiosa. Del resto, non si potrebbe dare certo del Tu a Brunetto Latini: “Siete voi, qui, Ser Brunetto?”.

Riccardo Piazza

 

L'autore: Riccardo Piazza

Nasce a Palermo nel 1987 e si laurea in Filosofia della conoscenza e della comunicazione presso l’Università del capoluogo siciliano nel 2010. Prosegue i suoi studi specialistici in Scienze filosofiche all’Università di Milano dove consegue il Diploma di laurea Magistrale nel 2013. Scrive per alcune riviste telematiche di letteratura e collabora, quale giornalista, per diverse testate d’informazione occupandosi di cronaca parlamentare, costume e società. Si dedica attivamente allo studio dell'economia e del pensiero politico contemporaneo ed è docente di storia e filosofia. Gestisce un blog: http://www.lindividuo.wordpress.com Su twitter è @Riccardo_Piazza
Tutti gli articoli di Riccardo Piazza →