Il voto in Grecia: chi scende e chi sale
Come ogni elezione che si rispetti, anche stavolta le previsioni sono state smentite. A rallegrarsene, è soprattutto Alexis Tsipras, leader di Syriza – il partito della sinistra radicale – e già primo ministro dallo scorso gennaio (quando aveva vinto con oltre il 36%) fino al 27 agosto, quando aveva annunciato dimissioni e contestualmente elezioni anticipate.
Ripresentandosi agli elettori dopo aver sottoscritto il doloroso memorandum con l’Unione Europea che “tradiva” gli impegni del suo programma elettorale, Tsipras ha corso un enorme rischio, conscio anche della delusione serpeggiante tra i suoi sostenitori. Invece, le urne gli hanno regalato uno scenario che va al di là delle più rosee aspettative della vigilia. A dire il vero, già da qualche giorno nel quartier generale di Syriza si respirava un clima – come si suol dire in questi casi – di “cauto ottimismo”; in pochi, però, erano pronti a scommettere che il distacco Nea Dimokratia sarebbe rimasto pressoché lo stesso dell’ultima volta.
Con oltre il 96% delle sezioni pervenute, troviamo Syriza al 35,5%, con quasi un punto in meno rispetto a gennaio. Il calo, però, appare irrilevante se teniamo in considerazione che a gennaio Unità Popolare – il partito dei dissidenti nato da una scissione all’interno di Syriza e fermo al 2,9% – non esisteva. Dunque, volendo confrontare adeguatamente le due elezioni, ci si rende conto che il consenso verso l’area della sinistra radicale (esclusi i comunisti) è complessivamente aumentato: Syriza+Unità Popolare viaggiano intorno al 38,4%. In ogni caso, è bene precisare che i voti dei “ribelli” non sarebbero per forza confluiti su Tsipras nel caso in cui questi non si fossero organizzati in una formazione politica autonoma. In tutti i casi, in termini assoluti, Syriza vede comunque una flessione di circa 350mila voti in confronto all’ultima volta. Grazie al premio di maggioranza, il partito ha ottenuto 145 seggi (a fronte dei 149 di gennaio).
Scendendo di oltre sette punti, troviamo i liberalconservatori di Nea Dimokratia, il principale partito di opposizione che aveva proposto per il ruolo di primo ministro l’ex ministro della difesa Vaghelis Meimarakis. ND supera appena il 28%, che invece non era riuscito ad agguantare la volta scorsa, quando si era fermato al 27,8. Un miglioramento appena percettibile per il partito dell’ex premier Antonis Samaras, che comunque perde quasi 300mila voti in termini assoluti. In virtù delle formule di attribuzione dei seggi elettorali, ND cede un seggio, passando dai precedenti 76 agli attuali 75.
Un’emorragia di consensi inarrestabile quella del partito conservatore, evidentemente ancora giudicato da una larga parte dell’elettorato come il principale responsabile (almeno politico) della crisi. A dimostrarlo è il fatto che il flusso di voti in uscita da Syriza non è andato neppure in minima parte verso Nea Dimokratia, come sperava Meimarakis, convinto che quella di Tsipras sarebbe stata una meteora a scadenza. La stragrande maggioranza di chi non ha voluto rinnovare la propria fiducia in Tsipras ha preferito direttamente disertare le urne, mentre una quota più limitata ha scelto invece Unità Popolare. Il resto lo ha fatto Tsipras stesso, che è riuscito a convincere un numero consistente di delusi, molti dei quali hanno maturato la propria decisione nelle ultime ore. Si è verificato, quindi, quello che gli analisti chiamano il fattore-incumbency, ossia la tendenza a votare il candidato uscente anche se non si ha nei suoi confronti una completa fiducia ma per il timore che gli altri si rivelino peggiori di lui.
Altra preoccupante (ma in parte attesa) novità è stata la crescita di Alba Dorata, l’aggregazione di estrema destra che si conferma la terza forza politica del paese sfiorando il 7%. Il partito di matrice neonazista sarà rappresentato in Parlamento da 18 deputati, uno in più di quanti ne aveva eletti nel gennaio 2015. Nonostante molti dirigenti siano stati arrestati e lo stesso leader Michaloliákos si sia assunto la “responsabilità politica” dell’omicidio di un giovane rapper ucciso due anni fa (come Mussolini con il caso-Matteotti), Alba Dorata ha portato avanti una campagna elettorale particolarmente dinamica, in cui i temi economici si sono affiancati all’annosa questione dei profughi, verso i quali il partito ha espresso posizioni decisamente intransigenti. Premere sull’esasperazione dei cittadini si è rivelata una strategia vincente per Alba Dorata, che ha incrementato i consensi soprattutto nelle isole come Lesbo, le più soggette all’emergenza migranti.
Al quarto posto, troviamo il PASOK (Movimento Socialista Panellenico) guidato dalla nuova leader Fofi Gennimata. I socialisti erano usciti con le ossa rotte dalle scorse elezioni, quando avevano totalizzato un umiliante 4,68%, che rappresenta il record negativo della storia del glorioso partito di centrosinistra, al quale un tempo guardavano con ammirazione da tutta Europa . Stavolta è andata un po’ meglio (6,26% e 17 deputati), complice anche l’alleanza con il DIMAR, la Sinistra Democratica dell’ex premier Papandreu che a gennaio aveva deciso di correre in autonomia, non raggiungendo però il quorum.
Quasi invariata la percentuale ottenuta dal KKE, uno dei più radicali tra i partiti comunisti esistenti nei regimi democratici, partito dove lo stesso Tsipras si era formato in gioventù. Con il 5,6% dei consensi, il KKE riconferma così la sua truppa di 15 deputati orgogliosamente stalinisti. Delusione, invece, in casa Theodorakis. Il famoso presentatore televisivo greco, altra novità delle elezioni di gennaio, non è stato in grado di conquistare la fiducia dell’elettorato, che continua a guardare con scetticismo al suo esperimento civico – chiamato To Potami (“Il fiume”) – moderato, europeista, liberale. Theodorakis sperava quantomeno di imporsi come perno di una coalizione di larghe intese, ma si dovrà accontentare degli 11 deputati (ne aveva 17) che il suo 4,12% gli ha consegnato.
Nettamente sopra la soglia di ingresso in assemblea anche i Greci Indipendenti (ANEL), la formazione di destra nazionalista che ha governato in questi mesi al fianco di Syriza. Il partito guidato da Panos Kammenos, pur ridimensionato rispetto alle precedenti consultazioni, porta in Parlamento 10 deputati, uno in più di EK (Enosi Kentroon), partito di centro moderato che ottiene la sua prima rappresentanza parlamentare, dopo averci provato per oltre vent’anni, ottenendo sempre percentuali da prefisso telefonico. Fuori tutti gli altri, a partire dalla già menzionata Unione Popolare capeggiata dall’ex ministro dell’ambiente Lazafanis e sostenuta anche da Yanis Varoufakis, che proprio ieri ai seggi aveva lanciato un duro attacco a Tsipras, suo ex presidente del consiglio. L’elettorato non ha compreso le ragioni di questa spaccatura, bocciando la proposta politica dei varoufakisiani, i quali non sono riusciti neppure a pescare voti dal KKE in funzione di un raggiungimento del quorum.
Si può dire dunque che la missione per Tsipras è compiuta. Molti gli avevano sconsigliato il ritorno alle urne, ma il giovane leader – preso atto di non poter più contare su una maggioranza – ha deciso di tentare il tutto per tutto, giocando l’azzardo di ripresentarsi al voto per liberarsi dei “disturbatori” dell’ala sinistra del partito. Questi ultimi sono rimasti fuori dal Parlamento, mentre Syriza ha sostanzialmente mantenuto lo stesso numero di seggi, ma stavolta con deputati fedelissimi, eletti in liste bloccate e quindi teoricamente in grado di evitare scossoni al nuovo esecutivo.
Subito smentite le voci che parlavano di un possibile accordo con un PASOK più a sinistra e rinnovato nei vertici. Stavolta non ci sarà bisogno di consultazioni, l’alleato naturale sono i Greci Indipendenti, i nazionalisti già partner di governo nella prima breve parentesi della presidenza Tsipras. Insieme si arriva a quota 155 seggi su 300. Per fugare ogni dubbio, Alexis fa salire sul palco dei festeggiamenti proprio Kammenos, già suo ministro della Difesa in odor di riconferma, nonché fedele alleato e interlocutore con il quale dovrà confrontarsi ogni giorno per i prossimi quattro anni – a patto che si giunga alla scadenza naturale del mandato. Si abbracciano, posano per i giornalisti facendo cenno di vittoria, si godono l’acclamazione della piazza. A vederli, sembrano un neoeletto presidente americano che sale sul palco insieme al suo vice, non certo due candidati che fino a un’ora prima erano rivali (almeno teoricamente) nello stesso spazio elettorale. È un’immagine strana, un anomalo fuori programma che in pochi aspettavano, ma che parla chiaro: quella che doveva essere un’alleanza provvisoria tenuta insieme solo da un idem sentire nei confronti dell’Europa sta diventando qualcosa di molto più serio.