Ferrara: “Renzi e Berlusconi, così simili e così diversi”

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Giuliano Ferrara non può far a meno di notare analogie tra la leadership che un tempo fu di Berlusconi e quella attuale di Renzi: “non mi oppongo – scrive sulle colonne de Il Foglio, il suo storico fondatore – quando si dice che Renzi fa le stesse cose che faceva Berlusconi, che i due sono simili per molti aspetti, che la sostanza politica e culturale è quella nonostante il discrimine tradizionale destra-sinistra”.

Il Jobs Act, anzitutto: ha un impianto di destra, per molti. Tra questi Landini, che ha accusato Renzi di una svendita del mercato del lavoro. “Il Jobs Act lo avrebbe potuto fare Berlusconi”, scrive Ferrara, parafrasando la sinistra. Anche i costituzionalisti hanno criticato Renzi, afferma l’ex eurodeputato socialista: “la riforma del Senato, a parte il pericolo di svuotamento della democrazia (anche questa già sentita), è tipica della cultura corrosiva della tradizione costituzionale incarnata, prima di Renzi, dal suo predecessore, almeno secondo il partito dei costituzionalisti d’assalto”.

Ferrara non si placa. Ecco servite le altre analogie: “così per le slide, per il partito ‘padronale’, per le intercettazioni, per le ragazze in politica, per la comunicazione disinvolta e lo storytelling col motore sempre acceso, per i rapporti con le imprese che cercano di fare reddito e profitti, per il governo del fare, per la scanzonata irrisione dell’impotenza della sinistra vocale o parolaia, per l’ottimismo coatto e una certa autostima da self made man. E per tante altre cose”. Le similitudini tra Berlusconi e Renzi non sono poche, secondo Ferrara, che in tempi non sospetti coniò il costrutto: “Berlusconi è il padre politico di Renzi”, o l’ex sindaco di Firenze è “il ‘Royal baby’ nella dinastia di cui il Cav. è il capostipite”. Visti i punti presi in esame nell’editoriale su Il Foglio, sembrerebbero critiche ben fondate.

Ma Ferrara sa essere tutt’altro che banale e così come nella prima parte ha sciorinato le analogie Renzi – Berlusconi, adesso vuole trovare le differenze tra i due leader probabilmente più amati ed odiati allo stesso tempo della Seconda Repubblica: “uno è un imprenditore entrato in politica nei suoi cinquanta anni inoltrati, era amico di Craxi, l’altro fa politica fin da piccino e ci vorranno quindici anni perché raggiunga l’età del debutto del principiante suo predecessore, che ha fatto un pezzo di storia d’Italia, ed è amico di Lotti. Uno è un libertino, l’altro un boy scout. Uno aveva il famoso conflitto di interessi come imprenditore della comunicazione televisiva, l’altro è stato al massimo candidato alla ‘Ruota della Fortuna’. Uno ha generato una cosa che non esisteva, la destra italiana, dalle ceneri della Prima Repubblica; l’altro ha rigenerato una cosa che stava per cessare di esistere, la sinistra democratica italiana, rottamando la vecchia oligarchia. E si potrebbe continuare con infiniti elementi di sostanza e di stile che, stavolta, dividono le due personalità, le distinguono per segno e per significato”.

Ciò che fa sorridere Ferrara, però, è la composizione dello schieramento avversario. I due “hanno gli stessi nemici” che esprimono le stesse critiche che riceveva Berlusconi anni fa, “egualmente motivate, sempre cadenzate sulle stesse note e disarmonie della crisi della democrazia, dell’attacco alle libertà civili, dell’indifferenza arrogante verso le leggi del dialogo e della solidarietà con i più deboli”. E quindi Ferrara arriva alle conclusioni. Parla di Renzi e Berlusconi come due uomini diversi che perseguono gli stessi fini (“una riforma dello Statuto dei lavoratori, il superamento della faziosità bestiale della televisione di malaparola, un Parlamento efficace e diversificato nelle funzioni e nei poteri di ciascuna Camera, e se pur diversi come sono tutti e due usano le slide per spiegarsi, se hanno partiti di follower e non di correnti, se difendono la privacy dall’origliamento di sistema, se promuovono giovani donne, se coltivano il made in Italy, se si presentano come persone pratiche e irridono le astrattezze ideologiche della vecchia sinistra in nome dell’ottimismo nazional-popolare”), allora non sarà, si chiede Ferrara, “che queste scelte hanno qualche giustificazione oggettiva al di là del consenso che le circonda e le ha circondate?”

Daniele Errera