Nuova ipotesi sul campo del Welfare State e del lavoro. Dal ministero dello Sviluppo economico e dalle stanze del dicastero dell’Economia si direbbero pronti ad implementare un riassetto organizzativo, dopo l’approvazione della legge di Stabilità, per la sostituzione dei contratti collettivi di lavoro con un salario minimo legale deciso soltanto dall’esecutivo. Sarebbe un movimento di proporzioni gigantesche per il sistema italiano della produzione perché, di fatto, tale evoluzione eliderebbe la concertazione tra le parti sociali perno dell’odierno modello vigente del contratto unico nazionale e di tutti quei contratti conosciuti oggi come “collettivi”.
Salario minimo: il confronto Confindustria-Sindacati
Nel frattempo il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha, per la giornata in corso, convocato i rappresentanti delle maggiori sigle sindacali per una sostanziale presa d’atto di fallimento nelle trattative circa i rinnovi contrattuali, (una trentina quelli in scadenza nel mondo dell’industria entro l’anno solare e soltanto ai blocchi di partenza quelli riguardanti il settore metalmeccanico), e per cercare un proseguimento ad hoc della mediazione per ogni categoria di produzione. L’ultimo rapporto del Centro studi di viale dell’Astronomia (Csc), ha certificato un aumento delle retribuzioni reali del 4,6 per cento negli ultimi tre anni all’interno del settore manifatturiero.
Tuttavia l’elevata imposizione fiscale e il mancato trasferimento di tale redditività dal potere d’acquisto del lavoratore al mondo delle imprese, non hanno permesso di percepirne i benefici. E mentre ieri Susanna Camusso, leader Cgil, dai padiglioni di Expo Milano 2015 tuonava contro quelli che ha definito “i segnali contraddittori di Confindustria” che renderebbero la stagione dei rinnovi contrattuali “ardua, difficile e in salita”, il tempo per mettere ordine all’interno del guazzabuglio italiano del lavoro per il settore pubblico e per quello privato sembra davvero non essere galantuomo.
Salario minimo: Italia Vs. Resto del mondo
L’Italia è uno dei pochi paesi dell’area europea a non avere istituzionalizzato alla base del suo modello contrattuale nazionale di lavoro un salario minimo legale, preferendo la contrattualizzazione concertata tra le parti in causa per ogni specifico settore di profitto. Negli Usa tale algoritmo è un applicativo ormai invalso ed in certi stati federali la retribuzione minima per orario di lavoro è di 7,25 dollari. C’è di più: ultimamente l’amministrazione Obama si è fatta promotrice di una manovra economica per l’aumento di tale compenso base fino a 10 dollari.
Il buono stato dell’attuale Pil statunitense, recentemente rivisto al rialzo nel secondo trimestre dell’anno del 3,9 per cento, stima presentata dai dati del dipartimento al Commercio, potrebbe essere un utile indizio circa l’efficacia di tale modello contrattuale. Le differenze sistemiche tra il federalismo d’oltreoceano e le repubbliche del Vecchio continente sono certo molte, ma resta un dato di fatto che anche nei maggiori Paesi dell’Ue, oggi, il salario minimo sia un valido sostegno per la salute delle politiche produttive e di consumo.
Riccardo Piazza