Ci sono dinamiche politiche che viaggiano per giorni, mesi ed anni lungo binari silenziosi e sotterranei, macinando dichiarazioni ed atti politici apparentemente scollegati, ma che poi – al momento della fuoriuscita – riescono lo stesso ad essere deflagranti.
Della vicenda che ha coinvolto il dimissionario sindaco di Roma, Ignazio Marino, se ne è scritto in abbondanza, ma sempre in maniera isterica e frenetica, come se ci fosse una scadenza da rispettare. Tra teorie complottiste (dei pro) e quelle puritane (dei contro) occorre fare un passo indietro. Marino arriva al Campidoglio dopo una doppia campagna elettorale: quella delle primarie del centrosinistra, superando nettamente David Sassoli e Paolo Gentiloni, e la sfida con l’uscente Alemanno alle amministrative.
In particolare la campagna per le primarie fu il preambolo della situazione che si sarebbe poi verificata tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 al governo nazionale: il frastagliamento del fronte bersaniano (rappresentato a Roma da Sassoli, per i dirigenti, e dallo stesso Marino, per i militanti) e l’inserimento della componente renziana (con la comparsata del poi ministro Gentiloni). Le cronache dello spoglio furono caratterizzate dalle notizie sulla presenza al seggio di numerosi rom ’in coda ai seggi’.
Quelle del 10 giugno 2013 parlano invece di una vittoria larga, contro un Alemanno in crisi mediatica per gli scandali Atac e gli strascichi di nevicate e piogge che fermarono la capitale negli inverni precedenti.
Ma è la prima ‘competizione’ a lasciare evidenti strascichi nella gestione della città da parte di Marino: da una forte concentrazione su temi come diritti civili (cavallo di battaglia fin dalle primarie nazionali democratiche del 2009, quelle contro Franceschini e Bersani) l’azione si sposta su alcune misure dal forte impatto mediatico e dal richiamo veltronian-renzianeggiante, come quello delle pedonalizzazioni del centro. L’ondata renziana, però, a dicembre 2013 va a travolgere tutti ed il passaggio sul carro del vincitore vede lunghissime code all’interno del Grande Raccordo Anulare.
Roma vede arrivare il neoscudiero Orfini a fare da cane da guardia ufficiale all’inquilino del Campidoglio, che continua a cercare un proprio stile comunicativo ‘bombardando’ sui social, alla ricerca del consolidamento di quei 600mila elettori, mantenendo però la linea della ‘purezza’.
Ed è allora – come ha avuto modo di sottolineare anche Dino Amenduni di Proforma all’Internet Festival di Pisa – che si è finalmente insinuato l’asse trasversale: essendo – oggettivamente – poco coinvolto da Mafia Capitale, il ‘puro’ Marino sarebbe dovuto essere accerchiato proprio sul suo campo comunicativo, l’onestà tout-court, senza se e senza ma.
Ed ecco l’affiancamento di Gabrielli e di assessori dalle dubbie capacità amministrative – come il dimissionario Esposito (celebre più per le sue dichiarazioni al limite dell’imbarazzo) – ma di assoluta fiducia per Palazzo Chigi.
Sullo sfondo restano i problemi di ogni amministrazione italiana, ingolfata dagli uffici delle dirigenze più che dalle guide politiche che sopravvivono solo accogliendo i desiderata dei veri gestori dell’amministrazione pubblica: quel variopinto (dal rosso al nero, passando per il bianco) battaglione di dirigenti e ‘posizioni operative’ che non hanno elezione e, per di più, che beneficiano di uno scarso controllo, essendo personaggi dal basso impatto mediatico.
Media che invece si sono concentrati tutti sull’isterica piazza, con collegamenti al limite del paradossale (cito, come esempio, quello di Sky Tg 24 a ridosso delle ore 20 di giovedì 8 ottobre) ed elenchi di fotocopie di scontrini.
Credo a questo punto che sia facile intuire perchè, con apparente sorpresa, Pisapia abbia deciso di farsi da parte dalla seconda corsa da sindaco di Milano.