In un momento di forti tensioni in Terra Santa, la nostra redazione ha intervistato Patrizia Fabbri, autrice di “Israeliani e palestinesi. Le ragioni degli altri”, un libro che, con chiarezza e metodicità, cerca di spiegare le ragioni che animano gli attori del c.d. conflitto israelo-palestinese, nel perseguire i loro rispettivi obiettivi, anche alla luce degli sconvolgimenti verificatisi nel mondo arabo negli ultimi anni, tra cui, in particolare, la c.d. “Primavera araba” e l’emergenza dello Stato Islamico.
Per quale motivo ha deciso di scrivere un libro sul conflitto israelo-palestinese?
Il libro in realtà è nato per caso. Ho iniziato a interessarmi a questo conflitto nell’adolescenza: ho un ricordo vivissimo dell’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972, quando un gruppo di terroristi palestinesi prese in ostaggio gli atleti israeliani che poi morirono nel blitz organizzato per liberarli. A questo ricordo se ne sono poi sovrapposti altri dove le vittime erano i palestinesi; nel frattempo cresceva la mia passione per le culture ebraica e araba, alla quale si è aggiunto l’interesse storico per una vicenda così complessa.
In pratica nel corso degli anni, molti amici, quando succedeva qualcosa “da quelle parti”, mi chiedevano un parere o di spiegare cosa stesse avvenendo; alla nascita di un nuovo gruppo, qualcuno mi chiedeva “ma chi sono questi?” e così via. Spesso mi sono trovata a ripercorrere le tappe di questo conflitto o a dare consigli su libri, articoli ecc. E così, quando Israele attaccò Gaza nel dicembre 2008 decisi di “buttare giù” qualche appunto da far girare tra gli amici, una sorta di “bigino” del conflitto. La cosa mi ha preso la mano e quando dopo due mesi ho concluso il mio lavoro, mi è stato consigliato di proporlo a un editore: nell’aprile 2010, Città del Sole Edizioni ha pubblicato la prima edizione.
Dopo 5 anni (6 in realtà da quando l’avevo scritto) ho ritenuto potesse essere interessante fare un aggiornamento, ma dato che i tempi dell’editoria tradizionale, soprattutto nel caso di saggi di autori sconosciuti al grande pubblico, sono decisamente lunghi, per questa seconda edizione ho scelto l’auto-pubblicazione. Volevo infatti uscire subito dopo le elezioni israeliane di marzo.
Nel prologo lei sostiene che non abbia importanza stabilire chi abbia il maggior grado di colpa per trovare una soluzione al conflitto. Tuttavia, ferma restando la responsabilità individuale di chi commette violenza contro i civili, non crede che sia necessario riconoscere che una grossa fetta di responsabilità vada attribuita all’occupazione israeliana dei territori palestinesi?
Sicuramente si. Quello a cui mi riferisco nella premessa, e nella stessa scelta del titolo, è che in un contesto così complesso, prendere aprioristicamente le difese dell’una o dell’altra parte rischia di farci guardare la realtà attraverso una sorta di velo che la maschera e la deforma. Solo la conoscenza, scevra il più possibile da pregiudizi, ci può aiutare a comprendere quello che accade. Come spero di avere spiegato chiaramente nel libro, i governi israeliani che si sono succeduti dal 1967 a oggi hanno una enorme responsabilità non solo nell’aver protratto l’occupazione per quasi 50 anni, ma nell’avere permesso e molto spesso incentivato la costruzione di colonie ebraiche in territorio palestinese, rendendo ancora più difficile la possibilità di una soluzione pacifica del conflitto.
Le colonie rappresentano un sopruso perché occupano terra palestinese, perché per garantire la sicurezza dei coloni l’area è presidiata dall’IDF (l’esercito israeliano); sono state costruite strade accessibili solo agli stessi coloni che segmentano il territorio in tanti bantustan, dove i palestinesi per muoversi tra villaggi contigui sono costretti a percorrere decine di chilometri. Fino ad arrivare all’aberrazione di Hebron. In base agli Accordi di Oslo, la città doveva passare sotto l’Autorità Palestinese, ma nel 1997 è stata oggetto di uno specifico accordo che la divide in due: il 20% della città, che comprendeva 400 coloni (oggi sono diventati circa 1.000) e 30.000 palestinesi, è passato sotto controllo diretto di Israele.
Uri Avnery, ex parlamentare israeliano, giornalista e pacifista, in un film-documentario sulla situazione di Hebron, ha dichiarato: “In ogni altro paese, 500 persone che ne tengono in ostaggio e vessano 160.000, verrebbero chiamati fascisti. Loro che sono arrivati 30, 40, 50 anni fa dall’Europa, considerano gli abitanti di Hebron, che vivono qui da 5000 anni, come stranieri. L’israeliano medio non ha idea di cosa succede là. Non lo sa e non lo vuole sapere. A Hebron succede quel che è successo a noi, nel momento più buio della nostra storia. Dopo che era finito tutti dicevano: ‘Non lo sapevamo, nessuno ce l’ha detto’. Certo che non lo sapevano, perché non volevano saperlo”.
Nel suo libro, lei allude alla possibilità di una terza intifada. Come definirebbe l’attuale ondata di violenze?
Credo che la situazione sia ormai diventata intollerabile. Se vivono a Gaza, oltre ai ciclici bombardamenti israeliani e a una situazione ai limiti dell’emergenza umanitaria, i palestinesi devono subire una progressiva islamizzazione imposta da Hamas. Se vivono in Cisgiordania, alla crisi economica, alla difficile “convivenza” con i coloni, alla repressione dei militari, si aggiunge la totale sfiducia verso un establishment corrotto e incapace. Quello che sta succedendo in questi giorni è molto più simile alla prima Intifada che non alla seconda: è un movimento spontaneo, anzi, non è neanche corretto parlare di movimento perché i protagonisti degli episodi più eclatanti sono singoli individui.
Purtroppo c’è una grande differenza con la prima Intifada: in quel caso, accanto alla rabbia, alla voglia di ribellarsi, c’era la speranza. L’idea di lottare “per” qualcosa. E difatti è proprio grazie a quel movimento di rivolta che si è arrivati ai primi incontri tra OLP e israeliani e poi agli Accordi di Oslo che avrebbero dovuto rappresentare l’inizio di un percorso di pacificazione. Purtroppo oggi la speranza sembra bandita e rimane solo una lotta “contro” qualcuno.
Queste violenze possono essere facilmente attribuite alla frustrazione derivante dal nulla di fatto dei negoziati e all’occupazione ma, allo stesso tempo, rischiano di compromettere la causa palestinese agli occhi del mondo. A suo parere, che valenza ha il ricorso alla violenza, in particolare da parte dei palestinesi?
Non credo che ai palestinesi, intendo la gente comunque, quelli che vivono la quotidianità dei check point, degli olivi abbattuti, che sono nati e cresciuti sotto occupazione, importi molto di mettere a rischio la propria immagine. Temo proprio che pensino di non avere ormai nulla da perdere e purtroppo non sono solo la frustrazione e la disperazione ad essere penetrati negli animi della popolazione; quello che si è diffuso in modo sempre più preoccupante e che credo sarà davvero difficile estirpare è l’odio profondo che si è impadronito di chi assalta a colpi di coltello ragazzini 13enni o lancia la propria auto contro passanti inermi. Qui non stiamo parlando di invasati “martiri” di Hamas e di esaltati manovrati da oscure forze di potere, stiamo parlando di gente normale, studenti universitari, padri di famiglia che, improvvisamente, si trasformano in killer. Bisognerà pur domandarsi il perché!
Si può sostenere che i media occidentali operino una sorta di “discriminazione terminologica”. Per intenderci: quando un palestinese assalta un israeliano, vengono di frequente enfatizzati i dettagli più cruenti dell’azione e l’attentatore viene quasi sempre definito “terrorista”. Come giudica l’operato dei media europei e, più in generale, occidentali?
La scelta del linguaggio non è mai casuale e sono d’accordo con lei sul fatto che in questo conflitto, la stampa occidentale utilizzi termini diversi a seconda se la vittima o l’attentatore è palestinese o israeliano. Sulle distorsioni di un linguaggio che implica un pregiudizio, è molto esplicita la giornalista israeliana Amira Hass in un articolo pubblicato qualche giorno fa su Haartez e ripreso da Internazionale: “Anche il nostro linguaggio è crudele. Gli ebrei vengono ammazzati, mentre i palestinesi semplicemente rimangono uccisi o muoiono…La nostra comprensione è prigioniera di un linguaggio censurato retroattivamente per distorcere la realtà. Nel nostro linguaggio gli ebrei vengono ammazzati perché sono ebrei mentre i palestinesi muoiono perché probabilmente se la sono andata a cercare”.
Hass si riferisce in questo caso alla stampa israeliana, ma si tratta di affermazioni che potrebbero facilmente essere estese a molta stampa occidentale e non mi riferisco solo a quelle testate che sono volutamente e deliberatamente faziose. È una grande responsabilità quella che i media si assumono (naturalmente questo è un discorso che non si limita alla questione palestinese, ma è un tema etico e deontologico molto più ampio): un linguaggio improntato sul principio dei “due pesi e due misure”, oltre ad essere intrinsecamente scorretto, non fa che alimentare la frustrazione e la rabbia della parte che non vede riconosciuti i soprusi e le violenze di cui è vittima.
Un esempio pratico? Anche uno dei giornali più obiettivi sulla questione, lo scorso 31 luglio, all’indomani dell’incendio che provocò la morte del piccolo Ali Saad Dawabsheh (seguita un mese dopo da quella del padre e della madre), titolava “Cisgiordania: bambino palestinese di 18 mesi arso vivo, l’incendio appiccato da nazionalisti ebrei”, se le parti fossero state invertite sicuramente non avrebbe, correttamente, esitato a scrivere “incendio appiccato da terroristi palestinesi”. Le parole sono importanti perché scavano profondamente nelle nostre coscienze e, sempre a proposto di questo attentato, cito un altro articolo di Haaretz, questa volta del famosissimo scrittore David Grossman; “Con quella gente non sono possibili compromessi. Israele deve combatterli esattamente come combatte il terrorismo palestinese: sono non meno pericolosi e non meno determinati”.
Ci sono poi lodevoli eccezioni (e non mi riferisco a chi è altrettanto fazioso sul fronte opposto), ma le vedo più frequenti sulla stampa estera, compresa (come gli esempi che ho citato) la stampa progressista israeliana, che su quella nazionale.
Nel suo libro lei allude alla possibilità di una polarizzazione dei giovani palestinesi verso l’Islam più estremo e l’ISIS in particolare. Dove localizzerebbe il maggior rischio? Nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania?
Benché la Cisgiordania non sia scevra da infiltrazioni salafite (la corrente più radicale dell’Islam sunnita cui fa riferimento l’ISIS) l’area maggiormente a rischio è sicuramente Gaza anche perché l’ISIS ha tutto l’interesse a farne una testa di ponte verso l’Egitto per unirsi con gli alleati Ansar Bayt al Maqdis, gruppo jihadista basato nel Sinai (molti dei suoi affiliati hanno fondato ISIL-Wilayat Sinai, ossia la Provincia del Sinai dell’ISIS).
Nella Striscia attualmente opera la Brigata Sheikh Omar Hadid, che ha rivendicato i lanci di razzi sulla città israeliana di Ashkelon nello scorso luglio e ha dichiarato la propria adesione all’ISIS. Lo Stato Islamico, in un video girato a Raqqa, in Siria, e diffuso agli inizi di luglio tramite i social networks, ha minacciato di estendere il dominio della sharia nella Striscia di Gaza, accusando Hamas di non mettere in pratica una rigida interpretazione della legge islamica. Nelle file dell’ISIS sarebbe confluito anche il gruppo Tawhid wal-Jihad, attivo da anni a Gaza e responsabile nell’aprile 2011 del rapimento e uccisione del pacifista e attivista per i diritti umani Vittorio Arrigoni.
La linea dura di Hamas nei confronti di queste organizzazioni ha portato a decine di arresti e ha indirettamente favorito, in luglio, i contatti per una tregua tra Hamas e Israele (che ovviamente non può gradire un consolidamento dello Stato Islamico ai suoi confini meridionali), ma è ovvio che le condizioni subumane nelle quali è costretta a vivere la popolazione di Gaza e la totale mancanza di prospettive per un miglioramento della situazione spalancano le porte alle forme di estremismo più radicale. E dato che Hamas non può certo permettersi di mettere in pericolo la propria egemonia come paladino della guerra al “nemico sionista” cercherà di cavalcare la protesta di queste settimane per rifarsi un’immagine, oggi abbondantemente offuscata. Infatti, puntualmente, il leader di Hamas Mahmoud al-Zahar ha auspicato la trasformazione dell’Intifada dei coltelli in un’Intifada armata, il che, nel linguaggio di Hamas, significa la ripresa degli attacchi suicidi.
E in tutto questo, tanto per gettare acqua sul fuoco, Netanyahu in un discorso al Congresso mondiale sionista non ha trovato di meglio da dire che addossare la responsabilità della Shoah ai palestinesi. “All’epoca, Hitler – ha detto il premier – voleva espellere gli ebrei non sterminarli, ma fu convinto alla Soluzione finale dall’allora Muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, timoroso di un loro arrivo in Palestina sotto mandato britannico”.
Le pagine del suo libro ci ricordano le varie interpretazioni che, nel corso degli anni, sono state date del Sionismo. Nel suo libro “Jewish History, Jewish Religion”, lo storico israeliano Shahak ha fatto riferimento a quella forse più preoccupante, per cui lo Stato di Israele dovrebbe mirare ad estendersi ben oltre gli attuali confini (tanto da includere il Libano, la Giordania, una parte dell’Arabia Saudita e della Siria e il Nord dell’Egitto). Nonostante questa interpretazione sia diffusa solo in una parte minoritaria del mondo ebraico, pare che durante la leadership di Sharon, alcuni generali dell’esercito la abbracciassero, e che questa circostanza fosse utilizzata come propulsore per dare un’impronta sempre più espansionistica alle azioni militari di Israele. Non crede che questa tendenza rappresenti una continua minaccia per gli equilibri medio-orientali, che si estende ben oltre i confini del conflitto israelo-palestinese?
Onestamente credo che questa interpretazione del sionismo sia di gran lunga minoritaria, mentre la maggior parte degli israeliani vorrebbe vedere cessare l’occupazione della Cisgiordania (secondo un sondaggio realizzato dal The Harry S. Truman Research Institute for the Advancement of Peace nel 2010, il 60% degli israeliani è favorevole allo smantellamento degli insediamenti). Quello che è certo è che ci troviamo in un momento di completa ridefinizione degli equilibri in Medio Oriente e il conflitto israelo-palestinese rimane (come è sempre, più o meno utilitaristicamente, stato) una pedina importante di questo scacchiere. Per questa ragione nella seconda edizione del mio libro ho dedicato un capitolo proprio a come, a partire dalla guerra in Siria, sta cambiando il Medio Oriente, alle nuove alleanze, al ruolo di Israele in questo contesto e a quello del sempre più freddo “amico americano”.
Intervista a cura di Piergiuseppe Parisi