Pasolini, quarant’anni dalla sua uccisione. In questo anniversario ospitiamo la firma di Saverio Mazzeo, irritato dalle odierne prefiche che, in una corale celebrazione (che forse è un’autocelebrazione), ritraggono il poeta omettendo le note meno edulcorate dell’artista corsaro.
L’importanza capitale di Pier Paolo Pasolini è tutta in Comizi d’amore. Perché nel suo documentario – il quale è tutto un capolavoro di neorealismo – lo scrittore si scontra con quella stessa Italietta che oggi – ricorrente il quarantesimo anniversario dell’assassinio – ovviamente scalpita nel tesserne prontamente le lodi. E però l’esercizio della memoria (che in realtà è esercizio di vanità, è il farsi scambiare per intelligenti lodando gli intelligenti) mette in evidenza le qualità meno disturbanti dell’artista, i tratti meno netti, meno feroci, meno aggressivi. E quindi ecco che tutti piangono: i figli illegittimi, i conformisti camuffati, i professionisti del mestiere. Il ritratto adeguatamente edulcorato è sempre pronto a favore di celebrazioni. Preconfezionato, ciascun artista possiede il suo. La società vince sempre su quell’Unico stirneriano a cui non resta che abdicare. Così fu per Artaud, scandaloso al pari del Pasolini nazionale. E ancor più completa fu la vittoria su quel Van Gogh che di quadri ne vendette la bellezza di uno, a quella società di allora e quindi di oggi (sempre uguale è a se stessa come in un eterno ritorno nietzchiano) che oggi non conosce altro da quei girasoli che ha in testa, in quella testa vuota e tutt’altro che pazza. Pasolini – è vero – ebbe la ventura e la sfortuna di conoscere il successo e quindi dare alla cultura italiana una spruzzata di coraggio e anticonformismo dall’alto di quella cattedra che sempre spetta ai maestri. Spetterebbe. Perché così – giusto per citarne uno – non fu mai per quel Dino Campana – illustre pazzo di Marradi – che poeta fu, ben più di Pasolini. Per l’appunto, il Pasolini dell’odierna celebrazione – fateci caso – è il Pasolini poeta, non il corsaro degli Scritti. Il Pasolini mediocre, gestibile, pubblicabile. Persino l’ammiraglio inglese Fazio Fabio – quello dall’umorismo da salotto d’oltremanica – riempiva, la scorsa serata, i minuti vuoti della sua Che tempo che fa celebrando quel corsaro ucciso – sul versante morale, quindi etico ed estetico – proprio da quel sistema che ieri ed oggi lo osanna e che scarica le responsabilità morali dell’assassinio su quel sottoproletariato invece caro a Pasolini. Comizi d’amore, appunto, è esemplare in tal senso. Il rapporto di autenticità tra Pasolini e la società italiana riguarda esclusivamente quest’ultima nella sua declinazione sottoproletaria. L’autenticità dell’agricoltore calabrese dei Comizi infrange il potere della sovrastruttura. Restituisce a Pasolini il substrato autentico del tipo d’uomo che inconsapevolmente aggira il linguaggio del potere.
Studio sul potere del linguaggio: anche questo è Comizi d’amore. Non è un caso che alla sua destra ed alla sua sinistra, a circondarlo, si possono trovare, idealmente, Ninetto Davoli e Franco Citti l’accattone. Egli subì il fascino del diverso da sé e ne volle morire. A proposito di Franco Citti, memorabile resta quel meraviglioso dialogo (fra sordi) tra quest’ultimo e Carmelo Bene andato in scena in un Costanzo Show d’annata. L’accattone chiede a Bene una via di salvezza per poterlo seguire sulla via del genio incurante delle beghe condominiali della società civile; per tutta risposta il genio, da genio, lo rassicura: “Ma tu lo sei, a tuo modo. Tu sei accattone. Loro sono degli accattoni e non lo sanno”. La platea ne esce poi definitivamente demolita quando Bene, da pugile di razza, assesta il colpo da k.o.: “Loro sono degli assassini dilettanti. Degli assassini scoreggioni. Questo sono questi signori qui”. Ecco ancora qui quel rapporto di autenticità tra l’accattone Franco e il genio Carmelo: “Nei miei vuoti io ti penso, stai tranquillo… Si può essere solo dei capolavori. Si può essere anche dei capolavori mancati; anzi, capolavori e mancati… Dovessi fare il conto di tutta la merda che c’è qui dentro certamente escluderei Franco Citti”. È questa l’Italia orfana di Pier Paolo Pasolini.
Saverio Mazzeo