Due suggerimenti per dire no a Grillo
Ellekappa si chiede come possano gli italiani affidarsi al primo buffone che capita, con l’aggravante che, questo, non sarebbe nemmeno il primo. È un’opinione condivisibile che può (e deve) essere spiegata, per quanto sia difficile analizzare il Movimento 5 Stelle. Ogni critica viene liquidata come il contributo fazioso di uno zombie compromesso col regime e con la casta, perché chi non s’accoda è, necessariamente, un nemico: Grillo, del resto, l’ha detto, “o noi, o loro”.
È un errore minimizzare ogni eccesso grillino, perché dietro le boutade di un comico trasformatosi in capopopolo si trova la pericolosità di un soggetto politico di cui, ancora, sostenitori e avversari, conoscono poco. Se Beppe Grillo fosse solo un buffone, potremmo stare tranquilli, interrogandoci, tutt’al più, sulle cause che hanno indotto il popolo italiano ad abbracciarlo –senza perdonare le colpe del centrosinistra che ha da anni perso la propria “diversità morale” e ha dimenticato strati sociali in difficoltà.
Il “movimento” assume i tratti di una nuova forza della destra anti-sistema. Non c’è nulla in comune con lo Jobbik ungherese o l’Alba Dorata greca; tuttavia, il Movimento 5 Stelle non si ferma al populismo –che, di per sé, è meno disgustoso dell’affarismo clientelare e corrotto che i partiti “tradizionali” praticano. I pentastellati non esitano, infatti, a porsi come una forza distruttiva e, per certi versi, sovversiva (l’assedio al Quirinale, il processo sul web alla classe politica, l’arbitrario scioglimento delle Camere) che ignora tanto la Costituzione (per la cui difesa, peraltro, è stato occupato il tetto di Montecitorio) quanto la realtà dei fatti (l’andamento dello “spread”, le conseguenze del ritorno alla Lira)
Provo a spiegarmi con due esempi.
Scioglimento delle Camere – L’articolo 88 della Costituzione recita testuale: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere”. È, onestamente, difficile pensare che il Capo dello Stato possa, arbitrariamente, sciogliere le Camere all’esito delle elezioni per il Parlamento Europeo. Nel 1984 il PCI superò la DC, ma né Natta chiese il ritorno alle urne, né Pertini vi pensò. Analogamente, nel 1999 Forza Italia vinse sui DS e nel 2004 la lista “Uniti nell’Ulivo” superò FI dell’11%: in nessun caso, la maggioranza di governo, benché sconfitta, fu toccata. Legare, quindi, la sopravvivenza della legislatura all’esito delle elezioni europee è, quantomeno, forzato. Come se ciò non bastasse, per ora, il prossimo parlamento sarebbe eletto con un sistema puramente proporzionale che costringerebbe ad una nuova coalizione tra PD e FI –probabilmente ciò che Grillo vuole, per continuare a gridare mentre gli altri si accordano, fermando ogni cambiamento a garanzia, così, del peggiore status quo.
Euro e “spread” – Mentre scrivo, il differenziale tra BTP e Bund tedeschi è fermo a 181 punti base, dopo aver superato i 200 punti in mattinata. Una settimana fa aveva toccato il minimo degli ultimi anni, a 150 punti, con un tasso d’interesse inferiore al 3%. I toni della campagna elettorale e la minaccia di nuova instabilità politica hanno bruciato, in sei giorni, due mesi di costante discesa. La sovranità, giustamente, appartiene al popolo e non agli investitori stranieri o alle istituzioni internazionali. Ma chi governa non può non considerare anche ciò che accade oltre i confini: l’attuale aumento degli interessi sul debito e l’eventuale ritorno alla Lira (valuta che, in trent’anni, s’è deprezzata del 550% rispetto al Marco tedesco e che inizierebbe a svalutarsi un momento dopo la sua reintroduzione) costano ai contribuenti italiani. Chi propone tutto questo, invocando anche il default, vuole spingere l’Italia in un angolo da cui uscirà –se uscirà– molto più povera. Già Mussolini provò ad entusiasmare le masse con l’autarchia e si finì col bere caffè di cicoria.
Andrea Enrici