La sospensione dalla carica degli amministratori pubblici prevista dalla cosiddetta legge Severino non costituisce una sanzione o un effetto penale della condanna, ma una conseguenza del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alla carica o per il suo mantenimento. Lo scrive la Corte Costituzionale nella sentenza sul caso De Magistris, che ha dichiarato non fondate le questioni sollevate sulla norma.
Legge Severino, le motivazioni della Consulta
“Di fronte a una grave situazione di illegalità nella pubblica amministrazione, infatti, non è irragionevole ritenere – scrive la Corte nella sentenza n. 236, relatore il giudice Daria De Pretis, depositata oggi – che una condanna (non definitiva) per determinati delitti (per quanto qui interessa, contro la pubblica amministrazione) susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica”.
Questo per evitare un “inquinamento dell’amministrazione e per garantire la credibilità dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’ombra gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera. Esigenze che sarebbero vanificate se l’applicazione delle norme in questione dovesse essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro entrata in vigore”. Quindi, argomenta la Corte, “così come la condanna irrevocabile può giustificare la decadenza dal mandato in corso, per le stesse ragioni la condanna non definitiva può far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto da tale mandato, sicchè si deve concludere che la scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità non ha superato i confini di un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco”.
Legge Severino, questione retroattività “infondata”
La questione relativa alla retrottività nell’applicazione della legge Severino, sollevata nell’ambito del caso de Magistris, è invece infondata. Questo sia perchè le disposizioni che discendono dall’applicazione della norma non sono sanzioni penali, come la stessa Corte chiarisce – e quindi non rispondono ai parametri dell’art. 25 della Costituzione, in base al quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Sia perchè, “al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 25 della Costituzione», «le leggi possono retroagire, rispettando una serie di limiti”. Limiti che la stessa Corte ha nel tempo e che “attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di fondamentali valori di civiltà giuridica”.