Riforma del Senato: Renzi non vuole farsi logorare
“Se perdo il referendum considero fallita la mia esperienza politica”. Parole (pesanti) e musica (dura) di Matteo Renzi. Il premier non usa mezzi termini e, a pochi giorni dal voto parlamentare, si prepara alla battaglia finale sulla riforma del Senato. Uno scontro che si prefigura in un redde rationem in due fasi: all’interno della maggioranza e, successivamente, nei confronti dell’elettorato.
L’importanza per Renzi della riforma del Senato
L’importanza del percorso delle riforme istituzionali per il premier non era certo in discussione. La stessa composizione dell’esecutivo con cui raccolse il testimone da Enrico Letta lasciava intendere – come avevamo anticipato già all’epoca – quale fosse il caposaldo (le riforme, incarnate nel “renzianissimo” ministro Maria Elena Boschi) e il motto (“non farsi logorare”) dell’allora sindaco di Firenze e fresco vincitore della battaglia per la segreteria del PD.
I marginali cambiamenti occorsi nei mesi successivi alla pattuglia governativa – con l’uscita di elementi come Maurizio Lupi e l’aumento di peso della componente renziana dovuto alla “promozione” di Graziano Delrio al dicastero dei Trasporti – non hanno cambiato il fulcro del progetto del premier, basato sì su riforme altrettanto importanti come quella del lavoro ma, soprattutto, su quelle istituzionali.
La riforma del Senato e lo scoglio referendario
La scelta di aumentare a dismisura il significato simbolico del referendum – che, essendo confermativo, non richiede nemmeno un quorum di partecipazione – oltre a provare a ridurre la pressione sulla tornata di amministrative del 2016, è anche un monito lanciato innanzitutto agli alleati di governo, dagli altri partiti della coalizione sino alla minoranza interna dello stesso Partito Democratico. Un invito a “non fare scherzi”, sia in sede di voto parlamentare che nella successiva fase di propaganda referendaria, distribuendo le responsabilità di un percorso riformistico considerato “altamente renzicentrico” agli occhi di buona parte dell’opinione pubblica, oltre che degli stessi addetti ai lavori.
L’ultima parola spetterà all’elettorato. Se l’esperienza politica del premier dimostra che non esistono strategie immutabili – #enricostaisereno è ormai diventato una pietra miliare della storia della Seconda Repubblica – la responsabilità scaricata su coloro che si recheranno alle urne può assumere un peso decisamente diverso rispetto a quello rappresentato da crisi e passaggi di testimone extraparlamentari, col rischio di rivelarsi un boomerang per lo stesso Renzi. Il quale, nel lanciare questa nuova sfida, porta alle estreme conseguenze un concetto ormai sostenuto – se non a parole dirette, quantomeno nei fatti e nei ragionamenti, ivi compresa la classica retorica sui “gufi” – da molto tempo: “dopo di me, c’è il vuoto”. Lasciando la scelta nelle mani dell’elettorato e, al tempo stesso, soffiando vento nelle vele del Partito della Nazione, avvalorandone quell’immagine di panacea in grado di superare le debolezze e zavorre del PD e dell’attuale maggioranza.