Velo islamico e non solo: i paesi con le leggi più dure sull’abbigliamento
Velo islamico e non solo: dall’Arabia Saudita alla Corea del Nord, senza escludere l’Occidente, la guerra morale combattuta sul piano del guardaroba continua a mietere vittime, soprattutto donne. Cronologicamente, è il Gambia l’ultimo paese che ha identificato in questo senso la condotta politica con le scelte personali. Da circa un mese il presidente Yahya Jammeh, infatti, ha dichiarato il paese una “repubblica islamica” (la seconda in Africa, l’altra è la Mauritania): tra i primi provvedimenti seguiti a tale scelta, il divieto di esporre i capelli e, dunque, l’imposizione del velo, per tutte le donne che lavorano per il governo.
Velo Islamico e non solo: dall’Uganda alla Corea del Nord
In Uganda non è un buon momento per vestire una minigonna, infatti, chi indossa gonne o pantaloni “sopra il ginocchio” rischia l’arresto in base a una legge recentemente approvata che vieta di “vestirsi in modo indecente”. Il provvedimento rientra in un più ampio piano di contrasto alla pornografia: da quando è stato approvato si sono verificate numerose aggressioni e molestie all’indirizzo di donne in tutto il paese. Delle massicce proteste di piazza svoltesi nella capitale Kampala, hanno indotto il governo ad annunciare delle modifiche.
Nel 2014, destò notevole scalpore il caso di 9 donne condannate a ricevere 40 frustate ciascuna in Sudan: la loro colpa era quella di aver indossato dei pantaloni “all’Occidentale”. Nel paese si applica una versione molto rigida della “sharia”: ogni anno migliaia di donne vengono arrestate per reati commessi contro l’ordine pubblico, che comprendono l’indossare gonne corte o ballare con degli uomini. Tuttavia, la legge non specifica il genere del trasgressore da perseguire: nel 2010, sette modelli che stavano svolgendo una sfilata sono stati condannati per indecenza e obbligati a pagare una multa per essersi truccati.
Il regime della Corea del Nord raccomanda a tutti i suoi cittadini un abbigliamento e un’acconciatura in linea con lo stile di vita socialista: anche se le regole si stanno progressivamente allentando, si fa sempre più forte l’influenza cinese – soprattutto nei contesti metropolitani, le donne sorprese a indossare pantaloni, in teoria, possono essere multate o condannate ai lavori forzati, mentre gli uomini sono obbligati a tenere i capelli di una lunghezza compresa tra 1 e 5 centimetri (devono tagliarli ogni 15 giorni).
Parlando di divieti e abbigliamento, non si possono citare i casi di Arabia Saudita e Francia. Sia alle donne saudite sia a quelle straniere è imposto un rigidissimo codice. Le musulmane devono vestire l’abaya, un lungo abito nero che lascia scoperte testa, mani e piedi, al quale devono abbinare un altro velo chiamato niqab, che copre il capo lasciando scoperti solo gli occhi, o un semplice velo per coprire i capelli. Invece, le donne straniere possono “osare” e non portare il velo sui capelli, di certo, devono coprire il corpo se non vogliono commettere un atto criminale. Gli uomini sono severamente puniti se colti a commettere il reato di “travestitismo”. Diametralmente opposto il caso francese: Parigi, nel 2010, ha proibito l’occultamento del volto in pubblico. Anche se la norma è stata accusata di discriminare le donne musulmane, essa è rivolta anche a chi indossa caschi (non sui mezzi a due ruote), passamontagna, cappucci etc… Nel 2014, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha respinto un ricorso perché – così hanno giustificato la loro decisione i giudici – le autorità della Francia hanno il diritto e il dovere di promuovere iniziative che incoraggino il “vivere insieme”.