Crisi economica: i russi a pane, patate e vodka
L’impatto della crisi economica ormai si percepisce anche nella stessa quotidianità dei russi: molti sono al di sotto della soglia di povertà, altri stringono la cinghia e rinunciano ai lussi, scoraggiati come sono dal protestare. Sul tavolo dei russi il pane c’è sempre, è considerato uno stereotipo culturale di grande valore, anche se il culto e la sua superstizione sono una conseguenza storica di decenni di fame. Gli abitanti ora s’affidano a quello che lo storico Oleg Khlevniuk definiva una combinazione tutta russa: pane, patate e vodka – una triade che è stata la base nutrizionale degli anni di Stalin.
Il terzo prodotto, la vodka, persiste come una moneta universale – si potrebbe definire una “moneta forte” – infatti dà la possibilità di “fuggire dalla realtà” ed è una fonte sicura di entrate per lo Stato. Il quadro attuale russo viene esaurientemente spiegato dal suo consumo: durante l’epoca di Stalin si consumavano 30 milioni di decilitri all’anno, nel 1952, 81 milioni, e nel 2015, 220 milioni. La sussistenza di coloro che sono sulla soglia della povertà è data dalla vodka, che opera da surrogato di azioni più radicali, come lo scendere in piazza per una protesta politica.
Crisi economica: i russi a pane, patate e vodka
Gli esperti di geografia economica sostengono che le periferie rurali russe si siano adattate alla crisi economica consumando più bacche, funghi e noci. L’attuale crisi economica ha un elemento che la rende più impegnativa delle precedenti: il valore reale delle pensioni è impalpabile. Gli economisti stimano che il 50% della popolazione dipenda in larga misura dalle pensioni, non come unica stabile fonte di reddito dei pensionati, ma per intere famiglie. Mentre le prestazioni sono state fagocitate dalla recessione, i lavoratori, piuttosto che rimanere a casa, si mantengono il posto accettando una diminuzione del salario, o lavorando solo qualche ora a settimana.
Nel mese di novembre 2015, l’indice dei sentimenti positivi per il consumo è sceso al 64 per cento. In un sondaggio dello stesso mese, i due terzi degli intervistati s’aspettava che la crisi economica durasse più di due anni, mentre la stessa percentuale prevedeva un’inflazione annua del 30 per cento. Cosa farà il settore pubblico russo? Naturalmente il governo cercherà di distrarlo con ogni sorta di conflitto straniero, soprattutto guerre commerciali e campagne d’informazione contro supposti nemici, cercherà d’evitare le proteste di massa combattendo le illusorie “quinte colonne” di putativi aspiranti rivoluzionari. Eppure, anche se la crisi ricorda la tana del coniglio di Alice nel paese delle meraviglie, i timori del governo russo per una “rivoluzione colorata” come quella ucraina sono infondati.
In Russia la gente comune stringerà la cinghia, come ha fatto sotto il regime sovietico: pane, patate e vodka – occasionalmente, frutti di bosco, funghi e noci – faranno parte della “nuova normalità”. Uno scenario perfettamente calzante con l’analisi del sociologo Seymour Lipset, che sostiene come i cittadini fanno rivendicazioni solo dopo aver raggiunto un certo livello di benessere, come è successo nelle grandi proteste del 2011-2012, che hanno beneficiato della prosperità del decennio precedente.
La popolazione vede il Cremlino come fornitore di benefici simbolici, come l’acquisizione della Crimea, piuttosto che come una fonte d’utilità tangibili. I russi sono stati abituati a sopravvivere senza l’intervento del governo e hanno imparato a sopportare le sue “regole”. La “stabilità di Putin”, è l’annunciato risultato dei due primi termini di presidenza: una stabilizzazione negativa, però, che sta riportando al pane e alle patate.
Gabrielis Bedris