Matteo Renzi trasformista come Depretis?
Matteo Renzi è un “trasformista” oppure no? A sentire il suo nuovo sodale fiorentino Denis Verdini – plurindagato e plurinquisito in diversi processi con le accuse di corruzione, bancarotta e truffa – sembra proprio di sì. Prima del Patto del Nazareno lo sherpa berlusconiano parlava del neo Presidente del Consiglio come di “uno che, tolta la rottamazione, non si sa cosa sia”. “Fin qui è stato un perfetto trasformista – scriveva Verdini in un sms riportato nel libro “Il Patto del Nazareno” scritto dal deputato di Ala Massimo Parisi – ma ora dovrà aprire la scatola e verrà il difficile”.
Verso il 2018: ecco il Partito della Nazione
L’accusa che viene mossa al Presidente del Consiglio dai suoi detrattori è quella di voler creare un unico grande partito di centro, il famigerato Partito della Nazione (PdN), e trasformare così il Partito Democratico in un grande partito a vocazione centrista. Il nuovo PdN raccoglierebbe dentro di sé tutti i transfughi del berlusconismo decadente (alfaniani, verdiniani ed ex montiani) più l’ala più moderata del proprio partito, ossia i renziani ortodossi più “tutti quelli che ci stanno”. Ai lati dell’asse politico così si verrebbero a formare delle forze politiche minoritarie, raccogliticce e soprattutto estremistiche: da una parte Sinistra Italiana ed ex di Sel (Fassina, D’Attorre, Fratoianni & Co.) e dall’altra una destra lepenista sotto l’ombrello sempre più ingombrante di Matteo Salvini. Un quadro politico, quest’ultimo, che potrebbe garantire al premier la vittoria e una legislatura sicura alle politiche del 2018. E i 5 stelle? I grillini sono difficili da posizionare all’interno di un arco politico tradizionale – “né destra né sinsitra” – tuttavia i 5 stelle si presentano come forza anti-sistema e Renzi e i suoi potrebbero giocare sulla contrapposizione speranza/paura come è avvenuto, con discreto successo, alle europee del maggio 2014.
Se il Partito della Nazione sarebbe la prova del nove del trasformismo di Renzi, per molti quest’ipotesi è poco più che fantapolitica. D’altronde, sostengono i sostenitori del premier, la legge elettorale Italicum è costruita a posta per un favorire un modello bipolare o comunque bipartitico: le due liste (non coalizioni) vanno al ballottaggio e chi prende più voti vince. Se Renzi volesse costruire davvero un grande centro stile Dc 2.0 dovrebbe formare una lista con dentro gli Alfano, i Verdini, gli Schifani, le Lorenzin. E in tal caso l’emorragia di voti degli elettori Pd potrebbe assumere dimensioni significative. Ma tant’è, la strada verso il 2018 (o 2017?) è ancora piuttosto lunga. Ne vedremo delle belle.
Le maggioranze variabili del governo
L’accusa di “trasformismo” rivolta al Presidente del Consiglio non riguarda però solo le sue strategie future, ma soprattutto il modo di governare. Secondo molti osservatori infatti Renzi governa il paese grazie a diverse maggioranze variabili. Non è la politica dei due forni di andreottiana memoria. E’ qualcosa di più. I forni diventano 3,4,5 a seconda dell’obiettivo da portare a casa: se bisogna eleggere i giudici alla Consulta si fa il patto coi 5 stelle, se va approvata la riforma costituzionale via al Patto del Nazareno (poi morto e sepolto) oppure l’alleanza strategica con Verdini e i suoi. L’ultimo fronte saranno le unioni civili: l’ok al ddl Cirinnà arriverà da Sel e M5S (entrambi all’opposizione) mentre Area Popolare e centristi vari (maggioranza) voteranno contro. Intanto però: jobs act approvato, legge elettorale approvata, responsabilità civile dei magistrati pure, riforma del Senato quasi. E così via. Non importa il come, non importa il modo. E’ il #cambiaverso bellezza, e tu non puoi farci niente.
Ala entra in maggioranza
L’ultimo azzardo (eufemismo) del premier è arrivato proprio nella giornata di ieri: Ala è ufficiosamente entrato in maggioranza. Nei giorni scorsi erano arrivate le tre vice-presidenze di Commissione in cambio del voto favorevole alla riforma del Senato. Ieri il gruppo guidato da Denis Verdini ha votato compatto contro le due mozioni di sfiducia contro il governo presentate dalle opposizioni sul caso-banche. Dei 178 contrari alla sfiducia, 18 sono i voti dei verdiniani. Ieri non sono stati decisivi per salvaguardare la maggioranza ma lo erano stati in diverse occasioni nelle settimane precedenti. Nonostante questo il premier continua a fare spallucce e i suoi sostengono – con disprezzo della logica aristotelica – che votare contro la sfiducia non è come votare la fiducia. Sarebbe un po’ come dire che non segnare un gol a porta vuota non significa sbagliarlo. Per dire.
Sabbatucci: Renzi come Depretis?
Così ieri in un editoriale apparso su la Stampa lo storico Giovanni Sabbatucci prendeva le distanze da chi vorrebbe paragonare Renzi ad Agostino Depretis, leader della sinistra storica e teorico del “trasformismo” italico inteso come passaggio dalla moderazione al progressismo e viceversa. “Meglio andar piano con i parallelismi – scrive Sabbatucci – va ricordato innanzitutto che l’operazione politica lanciata da Depretis non era solo una manovra di potere. Aveva anche, o principalmente, lo scopo non ignobile di rafforzare le istituzioni di uno Stato ancora molto giovane e di proteggerle dalla minaccia delle forze extra-costituzionali, che non ne riconoscevano la legittimità. Oggi non abbiamo sovversivi ‘rossi’ o papisti ‘neri’ che premono ai cancelli della rappresentanza”. Nonostante questo, sostiene Sabbatucci, non è del tutto fuori luogo “interrogarsi sulle conseguenze che l’avvento al governo di leghisti, pentastellati e populisti assortiti potrebbe avere sulla nostra situazione finanziaria e sui nostri rapporti con l’Europa”.
Ergo: la responsabilità di un quadro politico del genere ricadrebbe anche sulle opposizioni sempre più estremistiche. “Insomma – conclude l’esperto di storia italiana – la tendenza delle maggioranze parlamentari a far blocco al centro produce di norma l’effetto (negativo) di inibire l’alternanza. Ma può dipendere, almeno in parte, dall’inaffidabilità delle opposizioni. E questo non è un problema di Renzi o del Pd. Nel gioco della democrazia, dove vittorie e sconfitte si assegnano in base al conteggio dei voti, è già raro – Depretis insegna – che un leader respinga gli apporti esterni giudicati compromettenti. Ma è ancora più difficile che si faccia carico dei problemi di chi, legittimamente, aspira a prenderne il posto”.
Giacomo Salvini
Twitter @salvini_giacomo