Economie e Borse 2016, inizio pesante

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Economie e Borse 2016, inizio pesante

La lenta ripresa della produzione industriale italiana in novembre ha subito uno stop. Il relativo indice è diminuito dello 0,5% rispetto a ottobre, pur mantenendo una crescita di 0,9% su novembre 2014 e 1,1% dall’inizio del 2015. Di questo passo serviranno molti anni per tornare al livello di produzione pre crisi del 2008. Il recupero della nostra industria deve diventare meno dipendente dal settore auto sul quale, peraltro, si sono abbattute forti perdite borsistiche in questi primi giorni del 2016. La settimana nelle Borse europee si è chiusa con un KO. A incidere pure i dati deludenti provenienti dagli Usa. A Milano la settimana si è chiusa con l’indice Mib in calo del 3,4%. In sei mesi la Borsa italiana ha perso il 17%, tornando ai valori di inizio 2015; in pratica bruciando per intero gli effetti del Quantitative Easing della BCE(prestiti della BCE, in sostanza, senza interessi alle banche). Non diverso l’andamento nell’area Europea: l’indice europeoStoxx 600 si trova a -20% dai massimi di aprile 2015, scivolando al minimo in più di un anno e mezzo. Il mercato ha fatto ancora una volta i conti con i cali del prezzo delle materie prime e con i nuovi dati deludenti pubblicati in Cina, la seconda economia del mondo. Negativi tutti gli indici Asiatici ai minimi di tre anni e mezzo col petrolio che ha ripreso la sua fase calante. Nelle Borse europee pesano pure gli andamenti negativi dei titoli bancari per effetto del “bail-in“, la nuova procedura europea per i salvataggi bancari, che carica le perdite sui risparmiatori. Particolarmente gravi in Italia i crolli dei titoli delle banche considerate, a torto o ragione, più deboli. Ciò sulla spinta anche di speculazioni ribassiste dall’estero. Prendersela con la Ue non serve dopo che il Parlamento ha approvato queste norme. Adesso urge informare sul serio i clienti delle banche con una azione a tappeto di educazione finanziaria. Sapendo che potrebbe non bastare, come si è visto con i crack dei quattro istituti dell’Italia centrale, i cui effetti negativi su tutto il sistema sono ancora lontani dall’essere superati. Serve concludere velocemente la loro vendita e ancor più realizzare presto un piano di fusioni e aggregazioni che risolva i problemi delle banche più deboli. A mio parere, bisogna intervenire su due aspetti critici: i prestiti in sofferenza delle banche, pari a oltre 200 miliardi e i costi di struttura delle stesse, primo fra tutti quelli del personale. Il Governo può fare molto, innanzitutto con la Bad Bank.

 

 

 

 

 

 

 

 

La Bad Bank è fondamentale per dare maggiore solidità e credibilità alle banche italiane; la riduzione dei costi di almeno il 30% è necessaria per riequilibrare i conti economici del nostro sistema oggi fatto da troppe banche, troppi sportelli, troppi dipendenti, troppo pagati, esclusi quelli di più recente assunzione. La questione va affrontata a breve; sindacati, aziende e governo non potranno sottrarsi ad adottare ciò che è necessario (piano esuberi, pre pensionamenti, contratti di solidarietà, chiusura sportelli e persino tagli lineari delle retribuzioni). L’impiego bancario non è più un “posto fisso”. Tra tutti questi sommovimenti qualche notizia positiva. I consumi interni vanno bene in Europa e in Italia. Giocano a favore la voglia di uscire dalla lunga depressione e la maggiore disponibilità di denaro derivante dagli interventi del Governo (80 euro, abolizione IMU sulla prima casa, etc.) e dal calo della bolletta energetica. A conti fatti sono alcune migliaia di euro per famiglia da minori costi di carburanti, riscaldamento, energia elettrica. Sulla base di questi dati la Banca d’Italia nel bollettino appena uscito conferma la previsione di crescita dell’1,5% per 2016 malgrado la crisi asiatica e dei paesi petroliferi. Come detto, la causa principale del calo delle borse viene attribuita alle previsione di una minore crescita dell’economia mondiale. A sua volta causata dal calo delle entrate dei paesi petroliferi, dai dati non positivi dell’economia cinese e del crollo della sua borsa. In proposito, trovo interessante un articolo del Wall Street Journal che, parlando di 5 luoghi comuni sull’economia e la borsa cinese, ci aiuta a capire. Lo riporto quasi integralmente:

1. Il crollo della borsa è il riflesso di un’economia in crisi.

Il crollo della borsa cinese viene collegato alla diffusione di dati statistici che mostrano un calo superiore al previsto nel settore manifatturiero e più in generale alla situazione difficile che attraversa la sua economia. È vero che la crescita inCina sta diminuendo, ma l’andamento della borsa cinese non ci dice molto sull’economia reale. Il valore delle azioni quotate, è circa un terzo del PIL del paese, mentre nei paesi sviluppati (non in Italia) è pari al 100% o più. Inoltre è vero che dal picco del giugno 2015 la borsa cinese ha perso il 40%, ma il picco era stato raggiunto grazie a una bolla finanziaria, durante la quale il governo ha fatto di tutto per spingere i cinesi a investire in borsa. Il risultato è che ora gli indici sono più o meno dove sarebbero stati se non ci fosse stato il picco promosso dal governo.

2. L’economia cinese è trainata soprattutto dalle esportazioni a basso costo.

È vero che la Cina esporta prodotti a basso costo, ma per sapere se questo è davvero il motore trainante della sua crescita, dobbiamo sottrarre dalle esportazioni le spese per importare materie prime e prodotti intermedi necessari a creare il prodotto finito. Alcuni ricercatori, hanno scoperto che solo il 4% del valore di un iPhone “made in China” deriva dalla manifattura cinese. La gran parte viene dai componenti ad alta tecnologia importati da Germania, Giappone e Corea del Sud che in Cina vengono assemblati. Applicando questa analisi a tutta la produzione cinese si scopre che le esportazioni nette, cioè esportazioni meno importazioni, hanno contribuito in maniera modesta alla crescita dell’economia nell’ultimo decennio. Nello stesso periodo, il settore trainante è stato l’investimento in costruzioni, fabbriche e infrastrutture come porti e aeroporti, che ha generato più di metà della crescita. La Cina non è più un paese a basso costo del lavoro e gli stipendi si stanno alzando molto più velocemente di quelli di paesi vicini come Vietnam e Bangladesh. La manifattura cinese si sta spostando dalla produzione di beni a basso costo e a basso contenuto tecnologico a quella di prodotti più sofisticati.

3. La Cina manipola il cambio della sua moneta.

È un’accusa fatta soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Europa. In sostanza, la Cina è accusata di tenere artificialmente basso il valore della sua moneta – il renmimbi o yuan – in modo da rendere le esportazioni più competitive. Il governo cinese ha certamente adottato questa strategia in passato, ma di recente ha lasciato la moneta sempre più libera di fluttuare in base alla volontà dei mercati, cioè ha iniziato a liberalizzarne il cambio. Questo cambiamento di strategia, però, è stato fatto in maniera astuta, nel momento in cui più conveniva alla Cina. Il cambio viene liberalizzato proprio in questi mesi di crisi di borsa, col risultato che il renmimbi è ulteriormente sceso di valore rispetto al dollaro.

4. La Cina trucca i conti per far sembrare la sua economia più forte.

Molti analisti considerano le statistiche sul PIL cinese semplicemente frutto della fantasia dei burocrati del Partito Comunista. I tassi di crescita sono spesso, e in maniera sospetta, molto simili agli obiettivi proclamati dal governo. Secondo alcuni economisti, il vero tasso di crescita del paese è intorno al 3%, meno della metà del 7% dei dati ufficiali. In questo c’è molto di vero; per la Cina, è impossibile mantenere indefinitamente una crescita del 10%, ma con stimoli monetari e politiche fiscali il governo cinese negli ultimi anni ha potuto spingere molto la crescita. Però ciò non potrà continuare a lungo senza riforme economiche e politiche, di cui non c’è ancora traccia.

5. Il renminbi è una minaccia per il dollaro e le altre valute.

Il Dollaro è considerato la moneta più sicura al mondo e miliardi di dollari sono utilizzati in tutto il mondo come riserve valutarie. Lo scorso novembre, il Fondo Monetario ha annunciato che il renminbi entrerà a far parte delle riserve valutarie del Fondo, insieme a Dollaro, Euro, Sterlina e Yen. Si tratta di un riconoscimento importante della stabilità raggiunta dalla moneta cinese e dall’economia che la sostiene. Secondo alcuni, questo è il primo passo lungo il cammino che vedrà la fine del Dollaro come moneta di riferimento mondiale. Forse sarà così, ma ci vorrà come minimo un bel po’ di tempo. Oggi circa l’1 per cento delle riserve valutarie in moneta estera sono detenute in renminbi. Due terzi del totale sono detenute in dollari, una parte che dall’inizio della crisi cinese è persino aumentata. Perché la moneta cinese rimpiazzi il dollaro, la Cina dovrà godere di una fiducia degli investitori molto superiore a quella di cui gode ora. E questo non si otterrà né presto né solo con interventi economici.