Uno spettro si aggira per l’Europa, la tecnocrazia. Governi non eletti dal popolo che distruggono, a colpi di misure di austerità, diritti e benessere. La democrazia, per non uscirne sconfitta, deve ritrovare nel suffragio universale la forza per limitare il potere di tecnici che, a ben vedere, sono rappresentanti di quel mondo finanziario che ha generato la crisi che ora pretende di risolvere. Una pretesa assurda, forse falsa, che cela l’intenzione di instaurare un regime finanziario a scapito delle democrazie parlamentari.
Questi sono gli argomenti di coloro che, a sinistra e a destra, seminano panico e sgomento nella popolazione. Ma le cose stanno davvero così? Non del tutto, forse. E anzi occorre fare attenzione a non cadere dalla padella (della tecnocrazia) alla brace (del populismo).
I governi tecnici dal 1945 ad oggi
[ad]Scrive Marco Valbruzzi, sull’ultimo report Ispi, che “dal 1945 a oggi, solo 15 governi su 526, pari a poco meno del 3% dei casi, possono essere definiti governi non partitici, ovvero guidati, spesso per brevi periodi di tempo, da esperti di varia natura o provenienza. Complessivamente, questi governi di tecnici hanno amministrato la politica per non più di 5 anni sui 67 totali, vale a dire per appena il 7,5% del tempo dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. Per tutto il periodo rimanente, i partiti politici, in parlamento e al governo, l’hanno fatta da padroni”. Forse, a fronte di questi dati, non sono i governi cosiddetti tecnici quelli da cui ci dobbiamo guardare.
L’avanzata dei partiti populisti
I governi tecnici, si sa, sono utili nel prendere decisioni impopolari che i partiti, schiavi del consenso di un elettorato spesso poco lungimirante, non avranno mai il coraggio di prendere. Oggi, nei Paesi preda della crisi debitoria, si assiste a un tracollo di credibilità dei partiti tradizionali a vantaggio dei movimenti populisti. Il malcontento delle piazze, che non si riconosce nella politica tout court, soffre poi un deficit di rappresentanza che spesso viene intercettato da compagini che giocano sul malcontento. Partiti populisti, capaci di collocarsi a destra, a sinistra, “sopra” (come dicono alcuni) o sotto, ma animati dalla comune intenzione di entrare nelle stanze del potere (il Parlamento) per reiterare e replicare il modello fin qui proposto, così che tutto cambi affinché nulla cambi. Una nuova famiglia di partito che ha avuto successo negli ultimi vent’anni gestendo l’antipolitica e che in alternativa alle pratiche della democrazia partecipativa, valorizza una sorta di democrazia plebiscitaria.
Abbracciare il populismo, Sarkozy e la Merkel
La crisi economica ha rimesso in discussione il ruolo dei partiti e, come scrive Roberto Biorcio, professore di Sociologia all’Università di Milano Bicocca, vediamo ad esempio come Sarkozy, in Francia, stia cercando di presentarsi alle prossime elezioni come “presidente del popolo” prendendo le distanze dalle élite economiche che erano state favorite dalla sua politica fiscale. Se da una parte chiede un affidamento alla sua persona per salvare il paese dalla “catastrofe”, dall’altra manda precisi segnali all’elettorato del “Front National” (l’ultradestra fascista) con la promessa di frenare l’immigrazione, di escludere i matrimoni omosessuali e di ridurre il numero dei parlamentari.
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[ad]In Germania la Merkel, in calo di consensi, cerca di presentarsi come paladina degli interessi e del benessere nazionale riducendo al minimo la solidarietà con la Grecia e gli stati in difficoltà, proponendoli, di fatto, come capri espiatori. A uscirne distrutta è l’idea stessa di Unione Europea come spazio di solidarietà politica ed economica. Solidarietà la cui importanza è evidente se guardiamo alla storia europea e alle tre guerre che l’hanno insanguinata nel secolo scorso.
Il rischio vero sembra dunque essere quello della trasformazione della politica tradizionale in populista. Questa sì, esclusiva, a tratti autoritaria e assai poco sensibile a quello che è il potere della minoranza (vera essenza della democrazia) e sempre tentata dalla dittatura della maggioranza (come la chiamavano Toqueville e Stuart Mill). La maggioranza che sta, diceva quel tale, “come una malattia, come una sfortuna, come un’anestesia, come un’abitudine”. Una dittatura forse più concreta e sottile di quella tecnocratica.
di Matteo Zola