Elezioni Usa 2016: le primarie entrano nel vivo

Pubblicato il 18 Febbraio 2016 alle 13:53 Autore: Redazione
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Elezioni Usa 2016: le primarie entrano nel vivo

A meno di due settimane dal “Super Tuesday”, la sfida delle primarie americane si fa sempre più intensa. Due sono gli Stati in cui entro la fine di febbraio gli elettori democratici e repubblicani saranno chiamati a scegliere il candidato presidente: Nevada e South Carolina. Differentemente da quanto accaduto finora, però, le date non coincideranno per entrambi i partiti. I democratici nevadiani si riuniranno per i caucus sabato 20 febbraio, mentre i loro omologhi del South Carolina si metteranno in fila una settimana dopo, il 27. I repubblicani dell’ex stato secessionista andranno a votare anch’essi sabato 20, mentre quelli del Nevada terranno i loro caucus il martedì successivo.

Elezioni USA, Repubblicani: i toni si fanno aspri

In casa repubblicana continua la scrematura, dopo il ritiro di altri candidati nel corso della settimana. Il New Hampshire ha fatto capitolare tre degli outsider: Carly Fiorina, Chris Christie e Jim Gilmore. Ne rimangono soltanto sei, con Donald Trump ancora saldamente al comando e favorito in entrambi gli Stati. Anche in questi giorni, il miliardario non ha perso l’occasione di far parlare di sé, soprattutto dopo il dibattito negli studi della CBS tra i candidati repubblicani tenutosi sabato. Trump ha infatti attaccato di nuovo Jeb Bush per l’impreparazione del paese di fronte all’11 settembre e per il fallimento dell’azione americana in Iraq durante la presidenza del fratello (George W. Bush) riscuotendo fischi da un pubblico composto perlopiù da finanziatori dello stesso Bush, il quale ha rimandato al mittente le accuse, affermando di essere orgoglioso di George, “che costruiva un grande apparato di sicurezza mentre Trump realizzava un reality show televisivo”. Non meno pesante è stato l’affondo che Trump ha riservato a Ted Cruz, da lui definito come “il più grande bugiardo che abbia mai conosciuto”. Da segnalare poi l’accusa reciproca, fra Cruz e Marco Rubio (entrambi ispanici), non solo sul sostegno all’immigrazione ma persino sull’effettiva capacità di saper parlare in spagnolo.

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I toni, dunque, si alzano e rendono ancor più serrata la sfida, con le previsioni del South Carolina che vedono Donald Trump (intorno al 33%) distanziare di 16/18 punti gli altri candidati, con una gara per il secondo posto tra i due senatori (Cruz e Rubio), e a seguire Bush e il moderato John Kasich, il quale punta a bissare l’ottimo risultato del New Hampshire, che ha ridato quota alla sua candidatura dopo il disastroso risultato in Iowa. Ben più staccato il neurochirurgo nero Ben Carson, che oscilla intorno al 5% e che più volte ha dovuto smentire la notizia del suo ritiro dalla corsa. Trump in South Carolina può contare su una larga fetta di elettorato conservatore ed evangelico; inoltre, secondo un sondaggio di Public Policy Polling, la maggioranza degli elettori di Trump sembra che avrebbe preferito che gli Stati del Sud avessero vinto la guerra di secessione. Un dato piuttosto eloquente, che rimarca una frattura culturale tutt’altro che scongelata. Pochi i sondaggi sul Nevada, visto anche il minor numero di delegati che la regione esprime. Anche qui, comunque, la vittoria dovrebbe andare a Trump, con un margine minimo di 10 punti dai rivali.

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Elezioni USA, Democratici: gli afroamericani ago della bilancia

I motori si scaldano anche tra i due unici candidati del Partito democratico: Hillary Clinton e Bernie Sanders. Come già detto, l’appuntamento in Nevada è ormai imminente. A differenza del GOP, il duello nevadiano è molto interessante per quel che riguarda i democratici, considerando che i candidati vengono dati alla pari. Per Sanders, una vittoria (anche di misura) andrebbe a confermare quella spirale di consenso e fiducia già innestatasi dopo l’inaspettato pareggio dell’Iowa e la vittoria schiacciante in New Hampshire. Tuttavia, sul piano sostanziale, è il South Carolina a pesare davvero. E qui la Clinton è in netto vantaggio (59-41), potendo contare sul compatto (almeno finora) sostegno della comunità afroamericana, che nel 2008 aveva trainato la vittoria di Obama.

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Proprio in virtù di tale evidenza, Sanders è impegnato in questi giorni a ottenere l’appoggio di una parte di questa ampia fascia della popolazione della South Carolina. Lo ha fatto incontrando il noto reverendo Al Sharpton e ottenendo l’appoggio, tra gli altri, di Erica Garner, figlia di Eric, un afroamericano rimasto ucciso dalla polizia di New York. La Garner ha partecipato a uno spot a favore di Sanders finalizzato a sottolineare la gravità della questione razziale, come dimostrano i gravi episodi che periodicamente si ripetono soprattutto negli stati del Sud. Staremo a vedere se quest’opera di sensibilizzazione funzionerà in un’area dove non è raro incontrare un democratico che si dichiara favorevole alla pena di morte.

La Clinton, intanto, è alle prese con la questione delle migliaia di pagine di mail da lei inviate e ricevute con il suo indirizzo personale quando ricopriva l’incarico di Segretario di Stato. Nel corso di queste settimane, il Dipartimento di Stato sta controllando e rendendo pubblico il contenuto dei messaggi, che tuttavia non dovrebbe rivelare dettagli particolarmente scandalosi. La strategia di azione della ex first lady si sta concentrando invece su due binari: da una parte il consolidamento della sua posizione come candidato di riferimento per gli afroamericani, dall’altra il miglioramento del suo appeal tra i giovani, massicciamente schierati con Sanders.

L’occasione di Obama: un nuovo giudice in Corte Suprema

Un episodio ha colpito in questi giorni il dibattito pubblico americano: la morte di Antonin Scalia, giudice della Corte Suprema Usa, avvenuta il 13 febbraio. Dal momento che i nove membri del più importante organo giuridico statunitense mantengono il loro incarico a vita (salvo casi di età particolarmente avanzata o sopraggiunti problemi gravi di salute), la prassi vuole che il Presidente Obama proceda ora a nominare il sostituto di Scalia, che negli anni – da buon conservatore quale era – ha creato non pochi grattacapi alle sue politiche, a partire dalla riforma sanitaria, senza contare che la discussa elezione di George W. Bush ai danni di Al Gore nel 2000 avvenne proprio grazie al suo voto decisivo. Attualmente, quattro giudici della Corte sono di nomina democratica, e altrettanti repubblicana.

FILE - In this March 8, 2012 file phoo, Supreme Court Justice Antonin Scalia speaks at Wesleyan University in Middletown, Conn. Scalia says his method of interpreting the Constitution makes some of the most hotly disputed issues that come before the Supreme Court among the easiest to resolve. Scalia calls himself a “textualist” and, as he related to a few hundred people who came to buy his new book and hear him speak in Washington the other day, that means he applies the words in the Constitution as they were understood by the people who wrote and adopted them. (AP Photo/Jessica Hill, File)

Il giudice Antonin Scalia

La dipartita di Scalia presenta a Obama l’occasione di poter attribuire una maggioranza tendenzialmente democratica alla Corte. C’è però un ostacolo non indifferente: è il Senato a maggioranza repubblicana, attraverso il quale deve passare la ratifica della nomina presidenziale. Obama, però, sta cercando di giocarsi tutte le sue carte per far passare una personalità di suo gradimento. Una di queste risponde al nome di Tino Cuellar, giovane e brillante giudice californiano. Come ha scritto il Daily Beast, l’origine ispanica di Cuellar costituirebbe un ottimo motivo per mettere spalle al muro i repubblicani. Premesso che la composizione della Corte deve rispecchiare adeguatamente la distribuzione delle etnie presenti nel paese, buona parte degli elettori ispanici – ipotizza il web magazine americano –  potrebbe non perdonare al Partito Repubblicano l’opposizione alla nomina di Cuellar, opposizione che tra l’altro andrebbe anche a provocare un impasse delle procedure costituzionali. Sembra quasi che, con la sua morte, l’ultraconservatore Scalia abbia voluto mettere alla prova per un’ultima volta il Presidente che più di tutti aveva osteggiato da quel palazzo dove era entrato nel 1986, nominato nientemeno che da Ronald Reagan.

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