100 anni di Dadaismo, avanguardia contro il potere – INTERVISTA alla prof.ssa Patricia Chiantera
Dadaismo, 100 anni di un’avanguardia che con l’ironia voleva distruggere la morale e l’ipocrisia della generazione dei padri.
Patricia Chiantera Stutte è professore associato di Storia delle Dottrine Politiche presso l’Università degli Studi di Bari. Con numerose pubblicazioni che esaminano le influenze artistiche e intellettuali sulla politica, in particolare del Novecento, è tra le persone più qualificate a parlare di questo tema; la ringraziamo per l’intervista che ci ha concesso in esclusiva.
Innanzitutto, professoressa, una domanda preliminare: che cos’è il dadaismo?
Il movimento dadaista nasce nel 1916 per l’iniziativa dell’artista rumeno Tristan Zara e si diffonde in Europa e in tutto l’Occidente. È un movimento artistico in senso ampio: letteratura, arti figurative e tutte le forme di performance artistica – anche filmiche – sono comprese nell’arte dada, che fa riferimento al Caffè Voltaire di Zurigo. In quegli anni era sorto il primo grande movimento di avanguardia artistica e, insieme, politica: il futurismo di Marinetti, che richiedeva un totale rinnovamento della cultura, della politica e della morale borghese. Zara porta alle estreme conseguenze la carica ribelle del movimento avanguardista: invece di criticare la società e la morale corrente, proponendo un totale rinnovamento dei costumi e della politica, Zara e il dadaismo negano ogni valore alla storia, alla soggettività e a qualsiasi costruzione di ordine politico. L’arte borghese è morta, secondo Zara, così come ogni forma di associazione. Al loro posto, Zara rivendica l’“arte in sé”, liberata dalle convenzioni borghesi e espressione dell’individuo anarchico. L’arte deve ripartire dall’inizio e diventare un “antivalore”. Per tale ragione il dadaismo scardina le categorie intellettuali e politiche borghesi con l’ironia, con il nichilismo assoluto e con il ricorso a una “finta” ingenuità: dada “non significa nulla”, afferma il suo creatore. La distruzione delle convenzioni borghesi e l’anarchia sono i tratti fondamentali del dadaismo, che nasce da un impulso distruttivo, ma non necessariamente immorale. La distruzione è per Zara “morale” in sé: “Dada nacque da un’esigenza morale, da una volontà implacabile di anelare a un assoluto morale, dal sentimento profondo che l’uomo, al centro di tutte le creazioni dello spirito, affermava la sua preminenza sulle nozioni impoverite della sostanza umana, sulle cose morte”. Non è tanto l’opera artistica il fine del dadaista, ma l’atto artistico, l’atteggiamento individualista e distruttivo, con cui si rifonda l’idea di arte: strappare o incollare brandelli di carta, come fa Hans Arp, scegliere un oggetto per esporlo, come fa Duchamp, rappresentano degli atti provocatori che “ricreano” l’idea di estetica.
Quali sono le opere e gli autori più significativi?
Sicuramente l’autore principale del dadaismo è Tristan Zara, che ne è anche il fondatore insieme con il filosofo Hugo Ball, Hans Arp, Hans Ritter, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck. Dividendo gli artisti per gruppi in base alle città in cui il dadaismo si sviluppa, si potrebbero indicare gli esponenti più significativi del dadaismo svizzero iniziale, oltre a Zara e Ball, nel pittore alsaziano Hans Arp, nei pittori francesi Francis Picabia e Marcel Duchamp. In Germania, dove il movimento ha da subito un enorme successo, sorgono centri artistici nelle principali città: Berlino, Hannover e Colonia. In questa area sono attivi, fra gli altri, George Grosz, Wieland Herzfelde, Kurt Schwirters, Max Ernst e il pittore-poeta Johannes Baargeld. A Parigi sono significativi gli sviluppi del movimento in campo lettarerario, con l’adesione al dadaismo di poeti come Louis Aragon, Paul Eluard e André Breton. Le opere più famose sono i “ready-made” di Duchamp, che nel 1913 espone la ruota di una bicicletta come opera d’arte. Altre forme note di arte Dada sono i dadacollages di Arp, Picabia, Duchamp, Schwitters: sono collages di oggetti e stampe comuni, messi insieme a caso. Un esempio ne è uno dei cosiddetti Merzbilder di Schwitter: il Merz 94 del 1920.
Il dadaismo nasce nel febbraio 1916, nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, ma in Svizzera, in uno stato tradizionalmente neutrale. Quanto ha influito questo contesto?
Sicuramente il contesto della guerra è uno dei fattori determinanti nell’emergere di tutte le avanguardie, compreso il dadaismo. È, ad esempio, alla base del tentativo di Marinetti e del futurismo di delineare un progetto di rinnovamento sia artistico che morale e politico. La Grande Guerra costituisce un trauma da cui emergono non solo una nuova sensibilità artistica e morale, ma anche nuove rivendicazioni politiche. Le masse, i giovani di tutte le classi sociali, vanno al fronte, affrontano insieme e condividono la catastrofe della vecchia società europea liberale e aristocratica. Entrano in modo traumatico nella politica violenta e aggressiva, in una guerra le cui ragioni non conoscono. Il dadaismo, come il futurismo, è un movimento dei giovani che si contrappongono frontalmente ai loro padri, ai “sonnambuli”, come dice lo storico Christopher Clark. La generazione dei padri, che ha fatto scivolare il mondo nella guerra “totale” è il nemico principale dei dadaisti. Certamente la Svizzera è neutrale, ma non è fuori dalla guerra: ne è minacciata come tutti i piccoli stati che sentono ancora più forte la minaccia del conflitto delle grandi potenze. Inoltre la Svizzera partecipa alla guerra accogliendo i suoi profughi e permettendo la diffusione nell’opinione pubblica delle storie di violenza che, nei paesi belligeranti, sono spesso taciute o censurate.
Quali erano le rivendicazioni politiche del dada e in quale misura sono state accolte?
Il dada non ha rivendicazioni politiche, perché aborre tutti i progetti artistici e politici. Come ho detto, il dada non ha senso, e pertanto neanche un messaggio politico. Si potrebbe dire che è contro la politica, intesa come associazione, mediazione di interessi, creazione di coalizioni, ricerca del consenso. Tende, piuttosto, a spezzare il consenso, a distruggere l’armonia “artificiale” dell’ordine politico sostituendogli il disordine, il caos, la pura distruzione. Un pensatore che potrebbe avere dei punti in comune col dadaismo (e che Julius Evola tratta nelle sue opere) è Max Stirner, che conia l’individualismo anarchico dell’“unico”. Per Stirner non esiste la società, ma l’individuo ribelle, l’“unico” assoggettato alle passioni egoiste. Stirner sarebbe però solo uno dei pensatori che potrebbero avere un’affinità elettiva col dadaismo. Hugo Ball, invece, che del dadaismo fu uno dei cofondatori, aveva una concezione vicina all’anarchismo di Bakunin, che, invece, teorizzava l’anarchismo come una soluzione politica radicale per criticare la gerarchia del potere. Tuttavia, considerando sia l’apoliticità del movimento dadaista, sia la poliedricità delle posizioni politiche dei singoli protagonisti del dadaismo, non si può dire che vi fossero precise rivendicazioni politiche dadaiste.
Che influsso ha avuto il dadaismo in Italia?
Come ho detto, in Italia il maggiore esponente del Dadaismo in pittura è Julius Evola, un pensatore noto soprattutto per il suo nazismo e per la sua partecipazione come “modello ispiratore” ai movimenti della destra estrema e radicale postbellica. Evola è stato l’unico artista e scrittore che ha preso sul serio il movimento svizzero e ha ispirato alcune sue opere al dada. Certamente in Italia il dadaismo non ha avuto la diffusione e il successo di cui godeva negli altri paesi europei. In un’intervista a Evola, questi fa riferimento ad alcuni suoi tentativi di diffondere il movimento dadaista: alla rivista “Bleu” di un gruppo di Mantova di Fiotti e Cantarelli e delle performance romane all’Augusteo, in cui vennero rappresentati happenings dadaisti. La rivista Bleu ebbe comunque solo tre numeri e il cabaret dadaista ebbe anche una vita breve. Con la rottura fra Evola e Zara nel 1921 finisce la ridotta e scarna stagione del dadaismo italiano.
Dada è spesso considerato sinonimo di irriverenza. In questi cent’anni sono caduti innumerevoli tabù e molte cose che un tempo venivano considerate oltraggiose oggi non lo sono più. Come reagirebbero i dadaisti oggi di fronte a una simile “istituzionalizzazione del dissenso” in cui il “vaffanculo” è stato depenalizzato, mentre il politically correct è sempre all’erta per mettere in “fuori gioco” anche una semplice battuta dal retrogusto “sessista”, “omofobo”, “razzista”, “antisemita”?
Mi è difficile pensarlo, per l’imprevedibilità delle reazioni dei vari dadaisti. Certamente l’ipocrisia e la morale borghese erano uno dei maggiori bersagli del dadaismo, e pertanto non credo che Zara o altri dadaisti si sarebbero scandalizzati della volgarità in politica. Ma nemmeno forse si sarebbero scagliati contro il conformismo del politically correct. L’arma del dadaismo non è l’attacco frontale ma l’ironia – in un certo senso il dadaismo è molto aristocratico da questo punto di vista. Un importante principio era il divieto di prendere sul serio la cultura e la moralità borghese. Credo che il dadaista avrebbe parodiato la moralità e insieme l’immoralità politica attuale, facendone risaltare la profonda ipocrisia. Forse Crozza è un po’ dadaista…
Cosa resta oggi del Dadaismo e cosa dovremmo imparare da questo movimento?
Il dadaismo è stato artisticamente recuperato dal New Dada americano degli anni Cinquanta: Robert Rauschenberg, Jaspe Johns e Jim Dine riprendono le tecniche e la poetica artistica dei dadaisti dell’inizio secolo, per criticare radicalmente la realtà consumista e superficiale contemporanea. Nascono così le opere di collages che riciclano i materiali di scarto e assegnano un valore artistico ai rifiuti. Il nuovo dadaismo americano diventa così il ponte del pasaggio dall’arte informale alla pop art. Forme del dadaismo, inteso come pratica e non come movimento intellettuale, potrebbero essere ritrovate nel situazionismo, in alcuni slogans del ’68, e, io direi, perfino nei punk. Credo che potremmo imparare dal dada l’ironia, lo scetticismo di fronte a qualsiasi autorità stabilita, di fronte alla modernità e alle mode, ma anche la critica nei confronti di chi si ribella e di chi si fa scudo con i paroloni del cambiamento radicale e del rinnovamento della politica. Insomma, una critica e una sguardo ironico non selettivo, ma diretto contro tutti: contro chi ha il potere e contro chi dice di non averlo.