Ormai abbiamo metabolizzato i dati. Alle elezioni del 25 maggio il Partito democratico ha ottenuto una affermazione inaspettata nelle proporzioni e nella capacità non solo di arginare meglio il ricorso all’astensione in una tornata di voto priva dell’appeal delle politiche, ma anche di andare in termini assoluti oltre 2 milioni i valori di Bersani del 2013, pescando quasi in egual misura tra ex astenuti, ex elettori di una Scelta civica sostanzialmente polverizzata, ed ex elettori del MoVimento 5 Stelle, e per di più si è assicurato un ruolo decisivo al tavolo delle delicatissime trattative europee, avendo fatto tutto questo in uno scenario dell’Europa occidentale decisamente critico, con l’Inghilterra e soprattutto la Francia a recitare la parte che sarebbe spettata a noi.
Ma al di là di questi elementi che cosa ci consegnano i risultati delle Europee in un’ottica di più lungo periodo? Provo a mettere insieme alcune considerazioni:
1. L’europeismo dell’opinione pubblica italiana non è una sorpresa ma una conferma di una tendenza tradizionale e, a quanto pare, radicata. Gli italiani sono fin dagli inizi il popolo coinvolto nell’integrazione europea più entusiasta e positivo, perché sanno che l’Europa offre una prospettiva di futuro migliore del presente modesto che hanno saputo costruirsi da soli. Alcuni rigurgiti di rigetto, dettati essenzialmente dalla difficoltà ad accettare le conseguenze delle proprie azioni e delle proprie scelte passate e da una fisiologica tendenza a scaricare su altri responsabilità che intimamente si sanno proprie, ed evidentemente presi troppo sul serio da ricostruzioni giornalistiche troppo appiattite sull’attualità, non hanno cancellato questo sentimento diffuso, che alla resa dei conti si è espresso col sostegno all’unica opzione credibilmente europeista. Se è vero che per l’Unione si profilano tempi difficili, è anche vero che essa può contare ancora su un importante bacino di consenso in quello che resta uno dei suoi paesi più significativi sul piano demografico ed economico.
2. Sul piano italiano, il superamento della quota del 40% ha portato molti a un paragone del PD con la DC. In alcuni casi questo parallelo è fondato su presupposti infondati e sulla totale ignoranza delle piattaforme programmatiche: la distribuzione geografica dell’elettorato non lascia dubbi ragionevoli (e quindi chi ne ha tragga le conseguenze) sulla natura culturalmente e socialmente assai diversa del grosso dell’elettorato tra un soggetto che trova il suo consenso nel voto di appartenenza del Centro Italia e nel consenso condizionato delle aree economicamente più sviluppate ed elettoralmente più mobili del Nord, e la “balena bianca” nutrita di clientela meridionale e di appartenenza confessionale, e dovrebbe chiarire le profonde differenze tra i due soggetti sui temi della laicità, senza nemmeno parlare della profonda differenza di culture economiche che caratterizza le due diverse epoche storiche. Più fondato è invece il parallelo di un ruolo sistemico al centro di governo in una nuova condizione di “pluralismo polarizzato”, tra le urla, minacciose o disperate, di Grillo da una parte e di Berlusconi dall’altra. Questo riposizionamento è sicuramente vero, e può diventare una “gabbia” di erosione del consenso da parte delle doppie opposizioni irresponsabili, come ci ha insegnato Sartori nei suoi studi degli anni Settanta. Bisogna però riconoscere che esso non è un semplice effetto di dinamiche generali, ma corrisponde alla precisa volontà del gruppo dirigente di aprire la macchina-partito all’esterno in uno sforzo di adeguamento alla competizione maggioriaria. Il parco degli elettori sensibili al richiamo delle estreme si è ridotto perché ha trovato ascolto nel soggetto “mediano”, finalmente liberato dell’idea, politologicamente rozza e sempre smentita dai fatti, che l’elettorato “moderato” italiano fosse connotato da precise issues di riferimento e che quindi avesse bisogno di un soggetto che le esprimesse a fare da interlocutore. Bersani si è scavato la fossa su questo fraintendimento, essenzialmente basato sul mancato aggiornamento dell’idea che i partiti siano rappresentanti “naturali” di gruppi sociali e culturali a tenuta stagna. Buttando a mare questi fraintendimenti, Renzi potrà muoversi in maniera più sciolta e spregiudicata nella delicatissima operazione di consolidamento di un consenso così ampio e, di conseguenza, naturalmente vario, e sperare di confermarlo mantenendo la dinamicità necessaria al sistema per non incancrenire. Le riforme istituzionali, per quanto discutibili sui singoli punti (specie la riforma elettorale), sembrano testimoniare lo sforzo in questa direzione.
3. Il tema del consolidamento è già affrontato dal movimento pentastellato, protagonista di una battuta d’arresto nel breve periodo che, però, potrebbe rappresentare un importante tassello strategico. I consensi raccolti lo scorso anno avevano provenienze diverse, e avevano trovato un movimento del tutto impreparato a gestirli. Prendendo posizione in un senso o nell’altro nelle varie occasioni di scelta che si sono presentate da allora avrebbe significato, per Grillo e per i suoi sodali, alienarsi definitivamente pezzi di elettorato consistenti: un dialogo con Marine Le Pen, pur pagante nell’immediato, avrebbe portato all’allontanamento di chi proviene dagli ambienti della sinistra radicale più volontarista e contestataria, ambiente in cui, peraltro, si sono formati molti dei militanti attivi e degli eletti alle cariche rappresentative; posizioni più “scoperte” su questioni come immigrazione e diritti civili, fino eventualmente a un accordo operativo con PD e SEL, comporterebbe la rinuncia degli insofferenti più suggestionabili dai pregiudizi fascistoidi che circolano nelle sottoculture digitali, e che si sono allontanati da una collocazione di destra essenzialmente perché i soggetti di quell’area non apparivano sufficientemente conseguenti con le loro invettive. La scelta dei vertici di fatto del MoVimento è stata dunque quella di non muoversi, di riprendere gli stilemi tipici e rimasticarli, probabilmente nella consapevolezza che un atteggiamento del genere non poteva condurre a una ulteriore espansione del voto favorevole. Quello che però il M5S sta ottenendo è una progressiva fidelizzazione di un’imponente massa di elettori, che una volta completata potrebbe permettere all’establishment pentastellato di essere più spregiudicato nei movimenti, facendo digerire agli elettori “storici” manovre più opache e contraddittorie. Insomma, ciò a cui si assiste da quelle parti è una versione contemporanea, fondata sulle nuove infrastrutture disponibili, delle classiche dinamiche dell’implantation di una forza politica destinata, se non ci saranno scossoni ulteriori, a radicarsi e a diventare una presenza duratura sulla nostra scena politica, magari non nelle dimensioni riscontrate all’esordio in una elezione nazionale, ma forse con un ruolo più incisivo nella determinazione delle policies.
4. Sull’altro lato dello scacchiere, a questa fase ascendente di stabilizzazione corrisponde una fase calante. Al di là dei risultati numerici delle elezioni europee, che garantiscono alle liste in vario modo ascrivibili alla destra una quota significativa del consenso, la questione strutturale si vede nella progressiva erosione del terreno occupato negli ultimi anni, ma ancora di più dalla silenziosa dissoluzione dei partiti “forti” dell’area sul terreno locale. Dall’ultimo colpo di coda delle regionali 2010 in poi, e soprattutto a partire dal trauma della sconfitta milanese l’anno dopo, il fronte berlusconiano nelle sue varie articolazioni ha smesso di fare campagna elettorale amministrativa, arroccandosi esclusivamente a tutela degli interessi personali e del ruolo politico del suo leader nelle trattative per affrontare gli ormai sempre più gravi problemi di natura giudiziaria. I risultati sul piano nazionale, oltre a essere inferiori agli omologhi appena precedenti, risultano decisamente lusinghieri rispetto ai dati registrati nei voti per comuni e regioni. D’altro canto le forse satelliti, come NCD e Fratelli d’Italia, sono troppo poco strutturate per avere una presenza reale, e sono percepite anche dai loro conduttori come una sistemazione provvisoria in vista di una ristrutturazione complessiva del settore politico-culturale. Solo la Lega resiste nel suo radicamento, rigenerandosi dalle proprie ceneri come ogni volta che le chimere “tecnocratiche” e “in doppio petto”, prive di reale spazio politico, cedono il passo all’invocazione dell’elettorato radicale, tradizionalista, antistatalista perché antimoderno, “rurale” nel senso di collocazione periferica sul piano culturale e demografico e di ampiezza di vedute, ma ha da tempo mostrato i limiti numerici della sua azione. Ormai, in assenza di colpi di coda d’alta scuola sempre più difficili vista anche lo stato giuridico di Berlusconi, è che le opzioni politiche d’area si condannino a una progressiva residualità, mantenendosi in vita per la “rendita” dei contatti maturati nel corso degli anni passati, ma senza reali riprese espansive non occasionali. Proprio sul piano delle performance alle amministrative, invece, si vede un M5S ogni volta più tonico, capace di incrementare lentamente, ma con consistenza le proprie percentuali su un terreno ostile a un gruppo politico conformato in quel modo. Anche tenendo conto di questo scenario in evoluzione, e dei pacchetti di voti e consensi in “migrazione”, si dovranno elaborare strategie per gli anni successivi.
5. Un’ultima parola sui sondaggi. Gridare al “flop” delle rilevazioni è segno di ignoranza e superficialità tanto quanto l’affidamento cieco e assoluto ad esse prima della tornata elettorale, e non a caso entrambi gli atteggiamenti sono spesso tenuti, in rapida successione, dalle stesse persone. I sondaggi d’opinione sono strumenti di rilevazione e di raffinamento dei dati importante e molto avanzato, che, come ha illustrato in più occasioni uno specialista come Giampietro Gobo, possono chiarire certe tendenze di massima, e che anche in questo caso hanno in molti casi delineato ordini di grandezza sufficientemente precisi. Le sbavature evidenti, mai davvero superiori ai 5 punti percentuali dalle ipotesi più accreditate, che negli scorsi giorni hanno riguardato soprattutto l’”eccesso” di voti al PD, e l’anno scorso si erano concentrate sull’errore di attribuzione al M5S, sono legate in primo luogo all’emersione di soggetti politici nuovi, in un caso perché inediti, nell’altro perché completamente riposizionati (ora lo sappiamo) nell’arena politica.Le serie storiche disponibili, essenziali per ricalibrare rilevazioni parziali e di dimensioni numeriche limitate, in queste situazioni possono essere persino controproducenti. A ciò poi occorre aggiungere un mutamento di più lungo periodo nel comportamento elettorale italiano, che negli ultimi vent’anni è diventato più volatile, caratterizzato da un maggiore ritardo nella scelta e con minor presa e maggiore incertezza sul “mercato”, laddove questo sistema di raccolta del consenso è davvero massiccia, dei collettori professionisti di voti e di preferenze a cui ci si rivolge per l’acquisto di sostegno. Nel caso specifico delle europee, poi, si può anche aggiungere il possibile effetto distorsivo dei dati dei giorni e delle ore precedenti sulle opzioni di voto: il materializzarsi della vittoria del Front National, in particolare, ha probabilmente stimolato molti indecisi a superare l’astensione nelle ultime ore di voto. Di fronte a una situazione nuova servono paradigmi che evidentemente devono ancora raffinarsi, ma in condizioni simili il lavoro dei centri di ricerca demoscopica è fin troppo accurato.