Beppe Grillo ha giocato gran parte della sua campagna elettorale per le europee su una sparata da guascone: se perdo, mi faccio da parte. L’intenzione era quella di radicalizzare il confronto e trasformare una competizione di livello europeo in un referendum sulla sua leadership. In realtà nessuno che conosca un po’ di teoria e tecnica della comunicazione politica si aspetta che, ora che ha perso e pure malamente, vada a casa sul serio: si trattava chiaramente di una menzogna elettorale come ce ne sono tante. Anzi, a onor del vero va detto che Matteo Renzi aveva giocato la stessa carta durante le primarie del 2012, da lui perse in ugual misura: “se perdo, torno a fare il sindaco”, aveva dichiarato in più di un’occasione; il fatto che dopo meno di due anni sia ancora in politica a livello nazionale e abbia pure vinto le europee con amplissimo consenso dimostra che anche la sua promessa è stata pacificamente disattesa.
E’ per questo che quando oggi il “capo politico” è salito su un volo internazionale per raggiungere Nigel Farage e strutturare con lui un’alleanza per il Parlamento Europeo, dimostrando di fatto l’intenzione di restare saldamente al comando del suo MoVimento, nessuno dei commentatori si è scandalizzato più di tanto.
Ma l’elettorato di Grillo è diverso da quello di Renzi e sono in molti, in rete, a chiedere oggi le dimissioni promesse da Beppe Grillo, in nome della coerenza così tanto invocata e così poco frequentata.
Beh, come direbbe qualcuno, state sereni: anche volendo, Beppe Grillo non potrebbe fare quello che pretendono molti elettori e alcuni parlamentari pentastellati (rappresentati da Gaetano Currò), e cioè “dimettersi”, perché Beppe Grillo non è né il presidente né il segretario del MoVimento 5 stelle; ne è invece il proprietario, insieme a Casaleggio.
Il MoVimento 5 Stelle, infatti, non è un partito (questo è anche il motivo per il quale non ha mai avuto diritto ai finanziamenti pubblici che Grillo dice di aver rifiutato) e il suo statuto non contiene gli elementi minimi di democrazia interna previsti dalla legge sui partiti, gli stessi che gli permetterebbero di emanciparsi dai suoi proprietari. Non sono previste elezioni dei capi del MoVimento; non esiste una procedura per esautorare Grillo o Casaleggio; gli iscritti non potrebbero neanche all’unanimità reclamare – come associazione politica – lo sfruttamento del simbolo, che appartiene a Grillo e Casaleggio. Grillo gestisce anche in prima persona – grazie a un documento a parte che devono firmare tutti gli aspiranti parlamentari – i fondi appartenenti ai gruppi parlamentari a cinquestelle.
Cosa dovrebbe fare, allora, se volesse davvero dimettersi?
In teoria, dovrebbe donare la proprietà del simbolo, o i diritti a sfruttarlo, al MoVimento 5 stelle. Solo che non saprebbe a chi intestare la donazione perché il MoVimento non esiste.
O, meglio, esiste, ma è suo.