Una riflessione sulle primarie

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L’esito delle elezioni primarie di Palermo, che hanno incoronato l’ex dipietrista Ferrandelli come candidato unico del centrosinistra per la corsa alla poltrona di sindaco, ha scatenato un nuovo terremoto ai vertici delle forze progressiste italiane. Il PD, ma in questa occasione anche l’IdV e SEL, aveva infatti sostenuto la candidatura di Rita Borsellino, ad eccezione dell’ala dei cosiddetti rottamatori di Matteo Renzi che aveva invece dato il proprio appoggio a Davide Faraone.
Bene aveva fatto Bersani a ribadire, in una sua partecipazione alla trasmissione Che tempo che fa, che le primarie sono – scendendo al succo del suo discorso – niente più e niente meno che lo strumento che il Partito Democratico, e in misura minore la stessa coalizione di centrosinistra come accaduto a Palermo, mette a disposizione dei propri simpatizzanti affinché questi possano rinnegare le scelte della dirigenza e imporre persone di maggiore gradimento.

[ad]È tuttavia innegabile che le modalità di svolgimento delle primarie giocano un ruolo fondamentale nella definizione del risultato delle consultazioni stesse, e possono fare la differenza tra un immaturo rifiuto dell’esito delle votazioni e delle legittime riflessioni sull’utilizzo e sull’eventuale evoluzione del mezzo.
Il caso di Palermo, così come quello di Napoli nel 2010, appartiene a questa seconda categoria: più che l’esito in sé del voto, con la risicatissima e contestata vittoria di Ferrandelli, sono gli eventi di contorno a sollevare importanti questioni su come si siano svolte le primarie nel capoluogo siciliano, questioni che sfociano sulla regolamentazione delle primarie stesse e sulle possibili alternative che ne possono scaturire.

Generalmente un’altissima affluenza viene considerata un segno del successo delle primarie. I volti trionfanti della dirigenza del centrosinistra alla notizia del superamento dei tre milioni di votanti alle primarie nazionali del 2007 e del 2009 ne sono di certo un simbolo.
Eppure non vi sono limitazioni di sorta a chi può votare alle primarie. Un’altra affluenza alle elezioni primarie non è necessariamente un fattore da interpretare come positivo: può significare consenso ma anche contaminazione, può essere indice di reale entusiasmo e partecipazione quanto dell’intervento di altre forze politiche che utilizzano lo strumento partecipativo per pilotare l’esito del voto. La certezza su quale sia l’interpretazione corretta in caso di altissima affluenza arriva soltanto dopo le elezioni effettive, quando si misura la reale forza del candidato vincitore delle primarie in contrapposizione con i suoi reali avversari politici.
Quello della libertà di accesso al voto è un tema estremamente serio e di difficile soluzione. Le primarie statunitensi, da cui sono mutuate quelle italiane, prevedono il voto ai soli iscritti al partito, trasformando l’appuntamento in una specie di congresso di partito a partecipazione diretta. Il Partito Democratico, e in generale il centrosinistra, ha scelto di non replicare questo aspetto delle consultazioni d’oltreoceano, aprendo la porta, oltre che ai militanti, anche generalmente a tutti i simpatizzanti.

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[ad]Ciò che diventa complesso, in questa situazione, è definire proprio chi sono i simpatizzanti. Gli unici documenti di partecipazione alle primarie sono i – leggendari – registri dei parteicpanti alle consultazioni precedenti, che tuttavia non possono in nessun caso fornire né un’indicazione esaustiva sui simpatizzanti né tantomento avere alcun valore ufficiale: una persona è libera di cambiare schieramento a proprio piacimento in qualsiasi momento della propria vita.
È tuttavia vero che le primarie del centrosinistra, così come sono concepite in Italia, sono non solo un’opportunità per il centrosinistra stesso, ma anche per il centrodestra: esse infatti offrono a tutti i cittadini l’opportunità di scegliere il candidato dello schieramento progressista, e non solo all’elettorato di tale area. Un cittadino di centrodestra ha quindi la possibilità di scegliere colui che ritiene “il meno peggio” dello schieramento avverso, oppure la persona che ritiene avrà meno probabilità di vittoria nelle elezioni reali contro il candidato della propria coalizione.
Si tratta di certo di un uso distorto delle primarie, ma un uso comunque plausibile in quanto diretta conseguenza delle regole così inclusive previste per questa tipologia di elezione.

Quale potrebbe dunque essere la soluzione? Aumentare il contributo offerto dai votanti? Avrebbe il nefasto effetto di trasformare in privilegio una cosa che ora è considerata praticamente un diritto. Blindare le consultazioni ai soli iscritti? Sicuramente vi sarebbero garanzie in termini di tracciabilità che consentirebbero di risolvere in maniera definitiva i problemi precedentemente descritti, tuttavia una simile scelta avrebbe implicazioni tanto pratiche quanto di immagine che renderebbero questa scelta estremamente peggiore dell’attuale configurazione.
In primo luogo, e in un periodo di forti sentimenti antipolitici, la riduzione della partecipazione ai soli iscritti verrebbe interpretata come una scelta puramente d’apparato, scollata dal mondo reale della società civile; il tutto sarebbe enfatizato da un cambio delle regole rispetto ad una situazione di precedente apertura: il concetto stesso della restrizione, più delle nuove regole in sé stesse, sarebbe considerato un modo per rinchiudere il partito in sé stesso, per prendere le distanze dai cittadini e ribadire una volta di più il concetto di casta.
Il secondo problema costituisce invece l’amplificazione di un tema già attuale e scottante, ovvero l’utilizzo delle primarie come regolamento di conti tra personaggi e fazioni interne al partito o alla coalizione. Notoriamente tra i militanti è infatti più probabile individuare persone più familiari con le meccaniche di funzionamento dei partiti che con gli ideali che ne dovrebbero guidare gli intenti, e quindi pronte a orientare il proprio voto più per questioni di equilibri interni da mantenere o da spezzare che per scegliere un candidato realmente valido per l’incarico che dovrebbe ricoprire nella pubblica amministrazione. Ridurre per regolamento la partecipazione alle primarie ai soli iscritti significherebbe quindi trasformare in maniera definitiva questo tipo di elezioni in un vero e proprio congresso di partito, con il suo circo di truppe cammellate e di pugnalate alle spalle.
La presenza della società civile, in proporzioni nettamente maggiori rispetto agli iscritti, funge quindi da sistema di protezione delle primarie stesse contro le storture che deriverebbero da un’eccessiva chiusura del partito in sé stesso.

La realtà è che le primarie, come ogni altro strumento democratico basato sulla reciproca fiducia, sono un’istituzione fragilissima, la cui immagine è terribilmente facile da sporcare con accuse di brogli, di inquinamenti di vario genere o di voto di scambio. Per di più, non essendo un appuntamento istituzionale regolamentato dalla legge, vengono meno tutti quei meccanismi di controllo che regolano il normale svolgimento delle elezioni reali.

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[ad]I problemi delle primarie, come descritto, possono avere un’origine esogena rispetto alla platea dell’area politica chiamata al voto, attraverso l’intromissione di votanti estranei, oppure endogena, attraverso un utilizzo distorto dello strumento da parte delle dirigenze dei partiti. I due problemi hanno soluzioni diametralmente opposte e inconciliabili, l’una verso il controllo e la chiusura, l’altra verso l’apertura all’esterno.
Ciò che appare paradossale, ad oggi in Italia, è che i rischi provenienti dalla partecipazione esterna appaiono di gran lunga inferiori come portata a quelli che genererebbe una chiusura delle partecipazioni. I danni di immagine per il PD e per il centrosinistra sarebbero incalcolabili, e lo stesso strumento delle primarie si svuoterebbe di qualsiasi significato, per diventare un mero rituale senza alcun valore pratico, utile solo a misurare quale tra i tanti capi e capetti abbia il maggior seguito all’interno di un mondo sempre più chiuso in sé stesso, in lento ma ineluttabile disfacimento.

Se il prezzo per evitare questo lugubre scenario è un Ferrandelli scelto con l’apporto decisivo dei sostenitori di Lombardo, ben venga Ferrandelli. Ma prima di regolamentare le primarie restringendone i criteri di partecipazione, serve una prova di maturità che il mondo partitico italiano è ben lungi dal dimostrare.