Non è ancora efficace in pieno (anche se è già entrata in vigore), ma la legge elettorale approvata meno di un anno fa è pronta a finire sotto l’esame della Corte costituzionale, per profili simili a quelli che avevano affondato il Porcellum. A curare il ricorso contro l’Italicum al tribunale di Messina – con un’iniziativa che alla base ha le stesse riflessioni sviluppate nei ricorsi presentati in tutta l’Italia da Felice Besostri e altri avvocati, ma è autonoma e originale quanto alla stesura del testo – è stato Enzo Palumbo, avvocato messinese, che ha redatto l’atto con i colleghi Tommaso e Giuseppe Magaudda e Francesca Ugdulena. Già membro laico del Csm (1988-1990) e a lungo impegnato in politica, Palumbo è stato senatore per il Partito liberale italiano nella IX legislatura, ha ripreso nel 2008 l’attività con la Rete liberale, è stato presidente nazionale del ricostituito Pli e ora continua il suo impegno con l’Alde, il partito liberale europeo.
Non è la prima battaglia di Palumbo contro le leggi elettorali ritenute ingiuste: era sua la prima firma sullo studio dal quale era partita l’ultima iniziativa referendaria contro il Porcellum (quella del cd. Comitato Morrone-Parisi-Castagnetti): le firme raccolte furono oltre 1 milione 200mila e Palumbo fu tra i promotori e poi tra i difensori dei quesiti di fronte alla Corte costituzionale. In quell’occasione la Consulta non ammise i referendum, ma la legge dopo tre anni scarsi cadde comunque per mano della Corte, grazie a un’azione intrapresa da Besostri, assieme agli avvocati Aldo Bozzi e Claudio Tani. Ora Palumbo ci riprova, combattivo come la prima volta.
Avvocato Palumbo, nuova legge elettorale e nuovo intervento della Corte costituzionale: in un certo senso, lei è abituato…
Ricordo bene la battaglia fatta tra il 2011 e il 2012, allorché feci parte del comitato promotore di due referendum con cui si voleva abrogare il Porcellum. Tutto era iniziato con uno studio a mia prima firma, pubblicato nell’estate del 2011 ma concepito già l’anno prima: lì valutavo la possibilità che, abrogando per via referendaria le disposizioni della legge n. 270/2005 intervenute sulle leggi elettorali di Camera e Senato, si potesse ottenere la reviviscenza del Mattarellum in uso in precedenza. Andrea Morrone e gli altri che avrebbero poi costituito il comitato lessero quell’articolo e, da lì in avanti, la macchina referendaria si mise in moto; alla fine la Consulta non ammise i nostri quesiti, ritenendo che l’abrogazione referendaria non potesse far rivivere la norma prima vigente; non ero e non sono d’accordo, ma ne presi atto.
Eppure quella sentenza non fu inutile. Com’era avvenuto nel 2008 con l’ammissione dei referendum del comitato Guzzetta-Segni, la Corte segnalò l’irragionevolezza di un premio di maggioranza che non prevedesse una soglia minima di voti e/o seggi. Tutto ciò che è venuto dopo, in fondo, è partito da lì…
Esatto: già nel 2009 l’avvocato Aldo Bozzi, assieme a vari cittadini elettori, si era rivolto al tribunale di Milano per far accertare la lesione del loro diritto di voto, invocando un intervento demolitorio da parte del giudice delle leggi. Dopo i primi due gradi di giudizio senza troppa fortuna, la Cassazione ha ritenuto fondati i sospetti di incostituzionalità e ha fatto intervenire la Corte costituzionale: il resto è storia nota.
A lungo si è pensato che la legge per le elezioni politiche, per le caratteristiche della procedura elettorale, sfuggisse al controllo della Corte costituzionale. Dopo la sentenza n. 1/2014 della Consulta e questa ordinanza del Tribunale di Messina, quella “zona franca” è stata «scaraventata fuori dalla porta dell’ordinamento», come lei scrive nel ricorso?
Era stata sbattuta fuori dalla porta ed è rimasta fuori, anche se un legislatore furbo ha cercato di farla rientrare dalla finestra, inserendo quello strano differimento al 1° luglio 2016 che però non si riferisce dell’entrata in vigore, ma solo all’efficacia di parte della legge.
Due piani distinti, cosa che molti non hanno capito…
Confermo, ancora c’è chi pensa – sbagliando – che l’Italicum non sia al momento entrato in vigore… Rimandare gli effetti della legge, anzi soltanto alcuni di essi – perché l’esenzione dalle firme per i partiti costituiti in gruppi parlamentari e la delega al governo per il disegno dei collegi erano e sono perfettamente efficaci – era stata una scelta tutta politica, che è servita a ottenere il voto di alcune forze riottose, per non dare loro l’impressione che Renzi volesse far finire troppo presto la legislatura, ma di fatto poteva risultare anche un modo per evitare, al momento, che la Corte si esprimesse su una legge non ancora del tutto applicabile: così, per fortuna, non è stato… almeno fin qui.
Una curiosità: tra i cittadini elettori ricorrenti ci sono anche Francesco D’Uva, Alessio Villarosa e Valentina Zafarana, i primi due deputati e la terza consigliera regionale in Sicilia del Movimento 5 Stelle. Che ruolo hanno avuto in questa partita?
Lo scorso ottobre, mentre mi trovavo occasionalmente a Roma, mi ha contattato al telefono il deputato Riccardo Nuti del Movimento 5 Stelle: avendo saputo che era in corso un’iniziativa giudiziaria contro l’Italicum, mi chiese chi se ne stesse occupando in Sicilia; io chiesi chi del M5S potesse essere coinvolto nell’iniziativa, mi segnalò il deputato messinese Francesco D’Uva, i cui familiari sono per altro da sempre anche miei amici personali. I successivi incontri hanno poi coinvolto anche gli altri deputati nazionali e regionali messinesi del Movimento, Villarosa e Zafarana: tutti sono venuti nel mio studio e mi hanno conferito il mandato a rappresentarli nel giudizio. Ho molto apprezzato il loro comportamento e la loro assoluta coerenza nel momento in cui hanno condiviso l’iniziativa giudiziaria: vogliono ricorrere contro una legge che ritengono incostituzionale, sebbene sia una legge che indubbiamente li favorisce, perché potrebbe portarli a un ballottaggio che potrebbe vederli prevalere. Tanto di cappello dunque!
Una procedura “anormale”?
Venendo ai contenuti, nel ricorso lei ha sollevato ben tredici profili di incostituzionalità, alcuni dei quali sono stati giudicati «non manifestamente infondati» dal tribunale di Messina. Le sue prime censure sono di metodo, sul procedimento seguito nell’occasione e sui possibili futuri “guasti” al sistema costituzionale…
Guardi, quei profili si possono raggruppare in cinque blocchi omogenei e il primo mette in luce alcune criticità di metodo, anche se i giudici non le hanno ritenute fondate. Per noi ricorrenti, l’Italicum interviene di fatto sulla procedura di revisione costituzionale senza rispettare l’iter previsto all’art. 138: attribuendo la maggioranza assoluta della Camera a una sola lista (e nemmeno più a una coalizione, come accadeva col Porcellum), certamente minoritaria rispetto al corpo elettorale, si finisce per consegnare a quel partito anche il potere di modificare la Costituzione. Ci sarebbe poi un depotenziamento “di fatto” del Presidente della Repubblica a vantaggio del Presidente del Consiglio, con un cambio di assetto istituzionale a Costituzione invariata: col nuovo sistema elettorale, il leader del partito risultato maggioritario finirebbe per determinare l’elezione della maggior parte dei deputati e avere una sorta di legittimazione popolare che il capo dello Stato ben difficilmente potrebbe disattendere, benché la legge formalmente confermi le sue prerogative sulla nomina del capo del Governo. A monte, però, è il procedimento seguito per approvare la legge elettorale a essere profondamente viziato.
Qual è il problema?
L’articolo 72 della Costituzione prevede che un disegno di legge sia esaminato da ogni Camera prima in commissione e poi dall’aula, approvato articolo per articolo e con votazione finale. Il comma 4, poi, sancisce che tale «procedura normale di esame e di approvazione» dei testi sia «sempre adottata» per alcuni disegni di legge in materie particolarmente sensibili, compresi quelli «in materia elettorale». Qui invece non si è seguita la procedura normale, perché alla Camera il governo ha posto la fiducia sugli articoli qualificanti della legge: ciò trasforma un procedimento «normale» in uno «speciale», dunque l’apposizione della questione di fiducia sul ddl elettorale si è tradotta in una violazione della Costituzione.
Ma per la dottrina l’espressione «procedura normale» si riferisce all’iter col previo esame in commissione “in sede referente”, alternativo alle ipotesi di cui parla l’art. 72 comma 3, in cui l’esame si svolge solo o principalmente in commissione (“in sede deliberante” o “redigente”). Non si parla di questione di fiducia, nemmeno prevista in Costituzione…
È vero, ma innanzitutto in commissione alla Camera e al Senato l’esame non si era concluso e si è arrivati in aula senza relazione. Poi l’art. 72 comma 4 dice che la «procedura normale» in materia elettorale dev’essere seguita «sempre»: questo deve significare che non sono ammesse “deviazioni” rispetto al procedimento ordinario, altrimenti l’avverbio non avrebbe senso, sarebbe di troppo. E che porre la fiducia avvii una procedura speciale lo chiarisce il cd. “lodo Iotti”: nel 1980 (sedute del 23 gennaio e del 25 settembre) Nilde Iotti, allora presidente della Camera, dopo aver consultato la Giunta per il regolamento, precisò che l’apposizione della questione di fiducia, «modificando […] l’ordinario procedimento di discussione e approvazione dei progetti di legge, dà vita ad un iter autonomo e speciale». In più al Senato si era già consumata una grave anomalia, a causa dell’emendamento “premissivo” che ha fatto saltare una quantità incredibile di emendamenti sull’Italicum…
Parliamo dell’emendamento a prima firma di Stefano Esposito (Pd), che aveva “preposto” al resto della legge i principi e i punti fondamentali del nuovo Italicum ispirato dal Governo?
Esatto. Non si è seguita la cd. “regola di Bentham” accolta dai regolamenti: si vota prima l’emendamento più lontano dal testo del disegno di legge e, via via, quelli che meno si discostano. L’emendamento Esposito era ben diverso rispetto agli emendamenti “premissivi” fino a quel momento inventati dalla prassi parlamentare (ma sconosciuti ai regolamenti) e servivano soprattutto a scopo riassuntivo o definitorio rispetto al testo del disegno di legge. L’emendamento Esposito, introducendo un articolo suddiviso in nove lettere, per un verso confermava l’impianto della legge elettorale, per un altro verso introduceva significative modifiche a vari articoli: su questa base, si sarebbe dovuto “spacchettare” il testo, non ammettendo la parte confermativa e votando le singole parti modificative al momento della discussione degli articoli interessati dai cambiamenti. Eppure la presidenza del Senato – non c’era e non poteva esserci Grasso, in quel momento supplente del Capo dello Stato (ne esercitava le funzioni Valeria Fedeli, ndr) – ammise quell’emendamento, creando un vulnus pesante al procedimento: il tribunale ha trascurato del tutto questo aspetto, che per me resta di eccezionale gravità. Anche alla luce della decisione di questi giorni del presidente Grasso, che non ha ritenuto ammissibili gli emendamenti premissivi sul disegno di legge relativo alle unioni civili, l’argomento avrebbe meritato una certa attenzione: penso che prima o poi la Corte Costituzionale sarà chiamata ad occuparsene.
Cortocircuiti elettorali e un sistema “bloccato”
Il secondo gruppo di motivi?
Comprende quelle che possono apparire come vere e proprie “sviste” del legislatore. Da una parte, la legge sembra consentire lo “sforamento” dei 630 deputati previsti dalla Costituzione – eleggendone da 631 a 639 – qualora gli eletti in Valle d’Aosta e in Trentino Alto Adige siano collegati a liste non risultate maggioritarie (al primo o al secondo turno). Dall’altra, potrebbe addirittura verificarsi il caso limite di un partito che, sfiorando il 40% dei voti validi espressi, deve sottoporsi al ballottaggio pur avendo già ottenuto “sulla carta” 340 o più seggi: questo perché la soglia del 40% si calcola sul totale dei voti di tutte le liste, mentre il quoziente elettorale nazionale che determina la distribuzione dei seggi si calcola solo sulla base dei voti delle liste che hanno superato la soglia di sbarramento del 3%. Si tratta in effetti di anomalie che il tribunale ha ritenuto “di scuola” e, comunque, risolvibili con un’interpretazione “costituzionalmente orientata” delle disposizioni esistenti: proprio per questo, non le ha sottoposte alla Consulta. A me era sembrato giusto segnalare delle vere e proprie “falle” della legge che il legislatore non ha considerato, ma che possono avere effetto sui diritti di elettori e candidati.
Un terzo gruppo di profili di illegittimità mi pare paventi un “blocco” del sistema politico.
Da una parte, in effetti, c’è il problema legato all’esenzione dalla raccolta delle firme per presentare le liste. Il beneficio riguarda espressamente, per le prime elezioni successive all’entrata in vigore dell’Italicum (paradossalmente anche in caso di elezioni che potrebbero essere indette prima del 1° luglio 2016), i partiti costituiti in gruppo almeno in una Camera all’inizio di gennaio del 2014 (data del tutto cervellotica, senza alcuna giustificazione), che dunque magari neanche hanno partecipato alle elezioni (è il caso del Nuovo centrodestra, ndr): ciò si traduce in un privilegio ingiustificato, che inoltre “cristallizza” il sistema dei partiti e ne impedisce il rinnovamento senza che ce ne sia alcuna oggettiva giustificazione, come poteva essere quella che, nella normativa precedente, riguardava i gruppi parlamentari costituiti subito dopo le elezioni. Dall’altra parte, abbiamo voluto censurare un assetto normativo e interpretativo che “blinda” di fatto la giurisdizione esclusiva del Parlamento anche sul procedimento elettorale preparatorio: una legge delega del 2009 prevedeva che il contenzioso su contrassegni e liste fosse interamente devoluto ai giudici amministrativi, ma il Governo ha lasciato scadere il tempo della delega senza emanare alcuna norma in merito e, nella pratica, chi è danneggiato durante il procedimento pre-elettorale resta senza una tutela effettiva. Anche qui, però, il tribunale di Messina non ha ritenuto questi profili fondati e su questo la Corte costituzionale non potrà esprimersi.
Un flipper (o una roulette) dell’assurdità
C’è poi il quarto, nutrito blocco di censure sulla formula elettorale, stavolta invece ritenute dal tribunale «non manifestamente infondate», per cui la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi su queste. Lei lamenta innanzitutto una violazione del principio di rappresentanza territoriale: perché?
Perché, di fatto, la legge elettorale, per l’attribuzione dei seggi, disegna un meccanismo che somiglia a un gioco d’azzardo. La Costituzione, ripartendo i seggi della Camera (e, ad oggi, anche quelli del Senato) tra le varie circoscrizioni in base alla loro popolazione e prescrivendo un’elezione a suffragio «diretto», in pratica vuole che un parlamentare rappresenti un preciso territorio (pur senza vincolo di mandato). Per il complicatissimo algoritmo creato dalla distribuzione nazionale dei seggi previsto dall’Italicum, è molto probabile che voti dati in un certo territorio contribuiscano a far eleggere parlamentari in circoscrizioni lontanissime da lì e che in condizioni normali non sarebbero stati eletti: si perde così ogni tipo di legame tra elettore ed eletto e si priva di senso l’affermazione del suffragio diretto, così come interpretato anche a livello europeo.
Roberto D’Alimonte ha qualificato quell’algoritmo come «una roulette», altri hanno parlato di un flipper per indicare gli slittamenti dei seggi anche a notevole distanza. Le immagini la convincono?
Assolutamente sì. In sede di ballottaggio, tra l’altro, le assurdità aumentano: se si arriva al secondo turno, la determinazione degli eletti fa comunque riferimento ai voti del primo turno e, se la lista prevalente al primo turno perde al ballottaggio, un candidato molto votato di quella lista potrebbe vedere sfumare il suo seggio, magari conquistato da un candidato dell’altra lista assai meno votato di lui. È ragionevole tutto questo?
Italicum Premio: c’è una soglia, ma è quella sbagliata
Subito dopo l’algoritmo di distribuzione dei seggi, il principale colpevole è di nuovo il premio di maggioranza, perché?
Innanzitutto, per come è congegnato, il premio può diventare addirittura inversamente proporzionale al consenso elettorale: in definitiva, meno voti prende il vincitore e più è premiato, cosa francamente assurda. Secondariamente, non si dimentichi che in nessun altro paese esiste un ballottaggio nazionale tra due liste, come è disegnato dall’Italicum: quelli che esistono sono a livello collegiale o, se sono nazionali, riguardano cariche monocratiche. In più, il vero problema è che l’indicazione data dalla Corte costituzionale sulla necessità di introdurre una soglia per l’attribuzione del premio è stata travisata dall’Italicum.
La Consulta lamentava l’assenza di «una soglia minima di voti» che «la lista […] di maggioranza relativa dei voti» avrebbe dovuto raggiungere «per competere all’assegnazione del premio»: una lista con basse percentuali avrebbe potuto avere la maggioranza assoluta dei seggi, comprimendo la rappresentatività del Parlamento.
Esattamente. Si è fatta una cosa del tutto diversa: la soglia attuale, infatti, prevede sì una soglia, ma questa serve solo a determinare l’eventuale necessità di un secondo turno, all’esito del quale il premio viene attribuito comunque. Ora, non si dimentichi che la Corte non ha minimamente considerato l’ipotesi del ballottaggio, semplicemente perché per le elezioni politiche in Italia non c’era mai stato. Se si considera che al secondo turno tradizionalmente l’affluenza è minore, anche di molto, e questo si innesterebbe in una situazione di astensionismo diffuso, si capisce bene che è del tutto irragionevole che un partito, che magari al primo turno ottiene il 30% o anche di meno (soprattutto se è arrivato secondo) e al ballottaggio vince di poco, riesca a ottenere il 55% dei seggi rappresentando meno del 15% del corpo elettorale. Sarebbe stato molto più rispettoso delle indicazioni della Corte prevedere l’assegnazione del premio solo al partito che avesse raggiunto una certa quota del corpo elettorale (o, al limite, dei votanti) e, ove nessuno vi fosse riuscito, procedere a una ripartizione proporzionale.
Premio e sbarramento non vanno d’accordo
Lei però se la prende anche con la combinazione del premio di maggioranza e dell’unica soglia di sbarramento rimasta, quella del 3%: cosa non va?
Non esiste un sistema elettorale che preveda la coesistenza del premio e delle soglie: sono strumenti alternativi. Il premio dovrebbe già garantire la governabilità e non dovrebbe esserci bisogno di scoraggiare la frammentazione con una clausola di sbarramento; la stessa soglia, per parte sua, dovrebbe già spingere a non disperdere i voti e a concentrarli sulle liste maggiori, senza bisogno di attribuire alcun premio.
Sulle soglie la Consulta non si era espressa, visto che le disposizioni che le prevedevano non erano state impugnate…
È così, è una domanda nuova a tutti gli effetti. Qui non si discute dell’altezza dell’asticella della soglia – posto che il 3%, da solo, non appare irragionevole – ma della coesistenza col premio di maggioranza: in realtà, il problema c’era anche con il Porcellum, ma nessuno lo aveva sollevato e la Corte non se ne poté occupare.
Ancora un “Parlamento di nominati”?
Altro profilo di incostituzionalità riguarderebbe la «impossibilità di scegliere direttamente e liberamente» gli eletti. La colpa maggiore ce l’hanno ancora loro, le candidature multiple…
Senza dubbio e basta qualche conto per capirlo. La lista che vince (al primo o al secondo turno) prende almeno 340 seggi, le liste che hanno superato il 3% si dividono gli altri 278 (compresi quelli attribuiti in Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige; sono esclusi, ovviamente, i seggi assegnati alla circoscrizione estero). La legge consente a un partito di candidare la stessa persona come “capolista bloccato” al massimo in dieci collegi su cento: molte liste sfrutteranno in pieno la possibilità, in particolare quelle minori che vorranno assicurare l’elezione ai loro leader e dirigenti. Ora, la lista che otterrà il premio eleggerà tutti e 100 i capilista (bloccati), mentre gli altri suoi 240 seggi saranno assegnati in base alle preferenze; dei 278 seggi spettanti all’opposizione, una grandissima parte sarà attribuita ai capilista: risultato, potenzialmente alla Camera siederanno fino a 378 soggetti non votati direttamente dagli elettori (e, magari, a loro sgraditi); da ultimo, proprio per le multicandidature, una pletora di eletti esprimerà un’opzione per il collegio che farà loro comodo e lascerà il posto in tutti gli altri, per cui la composizione finale della Camera sfuggirà completamente dalle mani degli elettori e sarà rimessa alla scelta dei leader pluricandidati.
Mi ricorda quando, alla prima applicazione del Porcellum nel 2006, su 617 seggi da distribuire a livello nazionale, le opzioni con relativi subentri furono 219: allora era peggio perché non c’erano le preferenze, ma quella che lei prospetta non è una situazione ideale. Non crede che la Corte costituzionale sia stata troppo morbida sulle candidature multiple, dedicando loro solo un obiter dictum, un rapido passaggio?
Mah, forse, ma all’epoca i problemi peggiori erano altri. Consideri poi che allora tutti i candidati potevano candidarsi in tutte le circoscrizioni; oggi c’è un’ulteriore discriminazione, perché solo i capilista possono candidarsi in dieci collegi, mentre la multicandidatura non è prevista per chi si sottopone a voto di preferenza. È parità delle chance per i candidati questa? Secondo me è irragionevole e non democratico…
Tutti i difetti del Consultellum
L’ultimo blocco di profili di illegittimità non riguarda l’Italicum, ma la legge elettorale oggi efficace: il Porcellum depurato dalla Corte del premio di maggioranza e delle liste bloccate. Nemmeno il Consultellum, dunque, andrebbe bene: come mai?
Allo stato, e sino a quando la cd. riforma (che io chiamo “deforma”) costituzionale non andrà a regime – cosa che spero non avvenga – le soglie che sono rimaste in piedi al Senato sono completamente irragionevoli, perché sono molto più alte di quelle che il Porcellum prevedeva per la Camera; tra l’altro, vengono calcolate su circoscrizioni più ristrette e con un corpo elettorale più ridotto, il che rende proibitivo per quasi tutti i partiti l’accesso al Senato. Da ultimo, quel sistema di voto si applicherebbe alle elezioni del Senato anche dopo il 1° luglio 2016, qualora l’iter delle riforme costituzionali non fosse ancora concluso (o dovesse avere esito negativo), mentre alla Camera si applicherebbe l’Italicum: in quel caso, la governabilità che il legislatore ha voluto perseguire con la nuova legge elettorale resterebbe semplicemente una chimera, a causa di due sistemi tanto diversi. Il trionfo dell’irragionevolezza, come si vede.