Spending review,come farla male, se si tagliano solo gli investimenti
Tagliare le spese per i governi italiani non è mai stato un esercizio facile o gradito. Si vede dagli impegni traditi, dalla litania di commissari alla spending review caduti.
E così, per far quadrare i conti, gli stessi governi hanno preferito la via più facile, ovvero di tagliare soprattutto quelle spese per cui nessuno sarebbe sceso in piazza, quelle che avrebbero dato frutti solo negli anni a venire e non si sarebbero visti in modo immediato “nelle tasche degli italiani”.
Spending review, il crollo delle spese in conto capitale
Si tratta di tutte le spese non correnti, quelle in conto capitale, ovvero (anche) gli investimenti pubblici in infrastrutture, ferrovie, strade e autostrade, ma anche porti, rigassificatori, fibra ottica, case popolari.
La spesa sul PIL per tutte queste voci è scesa, secondo il Rapporto sulla programmazione di bilancio del Ufficio parlamentare di bilancio, da quasi il 5% del 2007 al 3% del 2014.
Sembrano numeri piccoli nel mare magnum della spesa pubblica, ma svelano un trend che ha visto un calo di quasi il 40% degli investimenti fissi.
Come sempre anche se già esiste un trend europeo, negativo, riusciamo a peggiorarlo. Nell’area euro infatti si è verificato lo stesso calo di investimenti e spese in conto capitale, ma non ai livelli dell’Italia.
Nei fatti questa è l’unica voce di bilancio con decurtazioni negli ultimi 10 anni.
Ed è stridente il contrasto con le spese correnti, in particolare le prestazioni sociali in denaro, che comprendono le pensioni, in cui come sapiamo battiamo tutti i record.
Le risorse che nel Dopoguerra venivano messe a disposizione della costruzione di strade e ferrovie ora vanno in pensioni, in gran parte ancora retributive.
E’ come se al di là della retorica sulle grandi opere e lo sblocco dei cantieri avessero vinto in silenzio i mille no TAV di tutta Italia.
Spending review, si rinuncia solo a costruire infrastrutture, in cui siamo fanalino di coda in Europa
Persino prima della grande crisi economica, tra il 1995 e il 2010 sono stati costruite in Italia solo 350 km di autostrade, contro i 1509 della Germania, i 3977 della Francia, i 6739 della Spagna, pur partita in ritardo.
Spagna che ora conta 2515 km di Alta Velocità contro i 926 km dell’Italia, e a differenza nostra, ha inaugurato nuove tratte anche durante la crisi tra il 2010 e il 2015
E’ come se un’azienda continuasse a pagare i fornitori e i dipendenti, in molti casi anche generosamente, a onorare, con maggiore o minore affanno, i creditori, ma rinunciasse a fare quegli investimenti per migliorare il prodotto, che dovrebbe essere il centro dell’azione dell’impresa, acquistare nuovi macchinari, fare formazione.
Alla lunga, pur provando ad aggiustare i conti con varie manovre, arriverebbe il declino, il calo di competitività rispetto alla concorrenza.
Che poi è quello che accade effettivamente alle aziende private, fuor di metafora. In questo la china è parallela a quella presa dallo Stato.
Nonostante una ripresa dei risparmi dal 2010, si è rotta la cinghia di trasmissione con gli investimenti, che hanno continuato a crollare fino al 2014
Dati Dipe (Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica)
Il dato è drammatico soprattutto se confrontato con un vicino, la Francia, che non brilla certo per dinamismo economico
Nel 2015 vi è stata una leggera ripresa all’inizio dell’anno, seguita da un altro calo nella seconda metà.
L’Amministrazione Pubblica non sembra intenzionata a una reale inversione di tendenza.
Per gli anni futuri sono previsti ancora cali della spesa in conto capitale. E il dato del 2010 è dovuto a una tantum, soprattutto riguardanti il pagamento degli adeguamenti arretrati delle pensioni dopo la controversa sentenza della Consulta, non esattamente quindi un investimento in competitività futura. Anzi.
Di questa doppia mancanza di investimenti da parte di Stato e imprese stiamo già pagando le conseguenze, in termini di produttività.
Si tratta esattamente di quella perdita di competitività di tutto il prodotto Italia di cui soffriamo da tempo, e che tutto l’agitarsi del governo ultimamente non sembra riuscire a (o volere) invertire.