Elezioni Usa 2016, un “Super Tuesday” privo di emozioni
Chi ha trascorso la notte a seguire il voto americano nella speranza di poter assistere a qualche colpi di scena è rimasto piuttosto deluso. Il “Supermartedì” delle primarie americane non ha riservato grandi emozioni. Donald Trump e Hillary Clinton consolidano le loro posizioni, conquistando entrambi 7 Stati e si avviano spediti verso la nomination.
Repubblicani: alla ricerca disperata di un anti-Trump
Dopo aver vinto in tre dei quattro Stati dove si era già votato, Donald Trump si è aggiudicato stanotte Alabama, Arkansas, Georgia, Massachusetts, Tennessee, Vermont e Virginia, favorito anche da un’affluenza senza precedenti. Un bottino importante per il miliardario, che si assicurerebbe così altri 200 delegati, toccando – nel momento in cui si scrive – quota 285. Con larga distanza, segue Ted Cruz, l’ultraconservatore texano che dopo essersi aggiudicato la primissima sfida dell’Iowa ha registrato una graduale decrescita, fortunatamente per lui interrottasi questa notte, dove ha vinto in tre Stati: l’inaspettata Oklahoma (dove Trump godeva di ampio vantaggio), l’Alaska di Sarah Palin (anche lei aveva endorsato Trump) e il suo Texas, che gli ha regalato il 44% delle preferenze nonché un numero notevole di delegati, grazie all’ampia popolosità dello Stato (secondo solo alla California per numero di abitanti). Per Marco Rubio, invece, il Supermartedì si è rivelato piuttosto amaro. Nonostante i sempre più numerosi endorsement, si è aggiudicato soltanto i caucus del piccolo Minnesota. Raccolgono le briciole gli altri due candidati rimasti in gara, Ben Carson e John Kasich, malgrado quest’ultimo sia riuscito ad arrivare secondo nel Vermont e nel Massachusetts. Si profila invece il ritiro per Carson, che nelle ultime ore sarebbe stato corteggiato dal partito con l’offerta di un seggio blindato al Senato in Florida in cambio della sospensione dalla corsa.
La strategia disperata del Partito Repubblicano per frenare Trump è adesso quella di convergere su un unico candidato “governativo”. Dal momento che “The Donald” non ha mai vinto con la maggioranza assoluta dei voti, continuare a disperdere il consenso tra altri quattro candidati è un lusso che l’establishment del partito non può più permettersi, considerando anche che l’attribuzione dei delegati non avviene in proporzione alla percentuale ottenuta. Il problema, però, è il soggetto sul quale convergere per mettere d’accordo le varie anime del partito. Fino a ieri il più accreditato sembrava Rubio. Tuttavia, la sua è una candidatura che ancora non è in grado di decollare, nuovamente canzonato in nottata da Trump che lo ha definito “un peso leggero” . Dopo la buona performance di stanotte, ha ritrovato vigore Ted Cruz, che ha affermato di essere l’unico candidato in grado di poter battere Donald Trump (“un disastro per i conservatori e per il paese”), il quale aveva definito recentemente Cruz “il più grande bugiardo che io conosca”.
Cruz, tuttavia, ha anche fatto intendere esplicitamente di voler appoggiare il candidato che otterrà la nomination, al contrario di altri suoi colleghi. Negli ambienti repubblicani, infatti, la repulsione nei confronti di Trump è ormai così evidente che già due deputati – Ben Sasse e Scott Rigell – hanno dichiarato che voteranno un terzo candidato qualora sarà a correre per la Casa Bianca sotto il nome del GOP dovesse esserci uno che arriva ad esitare prima di esprimere un parere sul Ku Klux Klan o che condivide sul suo profilo twitter frasi inneggianti a Mussolini, solo per citare gli ultimi due casi mediatici di cui Trump si è reso protagonista. Non si è esclude che a questi due coraggiosi “outing” non possano seguirne altri, innescando così una spirale di dichiarazioni anti-Trump che aprirebbero una falla insanabile nel partito, visto che lo stesso tycoon newyorkese – nel caso remotissimo non riuscisse a prendere la nomination – potrebbe correre da indipendente. Se le cose dovessero andare diversamente, con Trump candidato del Partito repubblicano una quota non indifferente di moderati potrebbe rispolverare l’ipotesi Bloomberg quale candidato indipendente, anche se l’ex sindaco di New York sembra aver definitivamente chiuso ogni possibilità di una sua discesa in campo.
Democratici: Clinton vince ma Sanders non sfigura
Per il Partito democratico, il Super Tuesday non ha fatto altro che fornire conferme ad uno scenario già chiaro da tempo. Hillary Clinton può sorridere, grazie alle vittorie ottenute in Alabama, Arkansas, Georgia, Massachusetts, Tennessee, Texas e Virginia. Ora detiene più di un migliaio di delegati, e ha di fatto la nomination in tasca. Appare infatti incolmabile il vantaggio su Bernie Sanders, che comunque nelle ultime ore della notte è riuscito a recuperare. Oltre al suo Vermont (dove vince con un plebiscito: 84%), il senatore Sanders conquista Colorado, Minnesota e Oklahoma. Non riesce però a radicarsi nelle aree meridionali del paese, dove aveva cercato insistentemente di accaparrarsi soprattutto l’appoggio delle comunità afroamericane. Gli Stati del Sud, però, si sono dimostrati piuttosto impermeabile alla “rivoluzione socialista”, regalando a Hillary Clinton un successo che la proietta già verso la corsa di novembre.
Sanders comunque non intende gettare la spugna, confortato anche dall’assegnazione con metodo proporzionale dei seggi di tutti gli Stati, che gli consente di restare a galla ancora per un bel po’. Consapevole sin dall’inizio che la nomination sarebbe rimasta un miraggio, il rappresentante più liberal del Congresso imposterà le prossime settimane di campagna elettorale sulla promozione di un diverso modello di America, più che sul consenso alla singola persona. “Non si tratta di eleggere il presidente, ma di cambiare l’America”, ha detto Sanders ai suoi sostenitori. Parole sintomatiche di un progetto più a lungo termine, e forse anche dell’ambizione (mai dichiarata) di poter ricoprire un ruolo di rilievo nel futuro gabinetto Clinton. In tutti i casi, l’imperativo rimane quello di spostare l’asse a sinistra – in parte già riuscito, considerando le recenti aperture della Clinton su temi quali il welfare state, le responsabilità di Wall Street e la difesa dell’ambiente.
Forte del valore aggiunto dei “superdelegati” nonché delle risicate possibilità di vittoria che avrebbe Trump, Hillary Clinton punta già ad elaborare la strategia per la Casa Bianca, dove tornerebbe non più nel ruolo di first lady ma in quello ben più impegnativo di Capo dello Stato, prima donna nella storia degli Stati Uniti. “Unire l’America” sono le parole che ha ripetuto anche poche ore fa, nel discorso di ringraziamento all’elettorato. Ma per unire l’America (e vincere le elezioni) bisogna sfondare al centro. Certo, tutto fa pensare che la più accreditata in tal senso sia proprio Hillary, data anche l’attitudine trumpiana a un meccanismo inclusione/esclusione per nulla allettante verso le consistenti minoranze etniche americane. Guai, però, a cantare vittoria troppo presto. La storia delle campagne elettorali americane ci insegna che da un momento all’altro ogni certezza può essere capovolta. Figuriamoci se a dettar legge c’è un personaggio tanto ambiguo quanto imprevedibile come Donald Trump.