Riforma BCC, polemiche a parte

Pubblicato il 28 Febbraio 2016 alle 11:52 Autore: TP Blog
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Riforma BCC, polemiche a parte

– Con il DL del 14 febbraio la riforma delle banche di credito, è (quasi) ufficiale.

I punti salienti sono due:

1 – Le BCC, le ex Casse Rurali, devono aderire, pena la perdita della licenza bancaria, a un gruppo bancario cooperativo che avrà come capogruppo una SpA con capitale minimo di un miliardo, detenuta a maggioranza dalle BCC del gruppo. La capogruppo avrà direzione e coordinamento delle BCC in base a un “contratto di coesione”, che fisserà i propri poteri: più le singole BCC si dimostreranno “virtuose” (cioè solide, efficienti e trasparenti) più avranno autonomia.
2 – Le BCC che non vogliono aderire al gruppo potranno farlo se hanno un patrimonio di almeno 200 milioni, versando all’erario un’imposta del 20% delle riserve e trasformandosi in SPA ovvero, scindendo o cedendo l’attività bancaria a una SPA e mantenendo la natura di COOP
Le singole BCC rimangono banche di comunità a mutualità prevalente, con capitario e governance eletta dai soci.

Nel primo punto il decreto legge è uguale al progetto di auto riforma di Federcasse. Nel secondo la “way out” (la possibilità di affrancarsi dal gruppo) sta producendo un dibattito intenso, pieno di polemiche e retro pensieri.

Cerchiamo di capire i motivi.

In passato per una BCC trasformarsi in SPA era praticamente impossibile, dovendo restituire, ai fondi della cooperazione, le riserve accumulate con le agevolazioni fiscali previste per le coop.

Col decreto, invece, a una BCC con patrimonio di almeno 200 milioni basta pagare un’imposta, molto onerosa, per restare autonoma. Oggi superano questo limite una quindicina di banche cooperative, ma alla conclusione dei tanti processi di fusioni in corso, saranno molte di più.

La possibilità di uscire dalla cooperazione per le più grandi (spesso le migliori) apre una breccia in un sistema pieno di debolezze e non così compatto come raccontano le campagne pubblicitarie e le dichiarazioni dei vertici nazionali delle BCC.

Il mondo cooperativo, guidato da 25 anni dallo stesso Presidente nazionale, definisce la “way out” un “vulnus” che va contro l’obiettivo di rafforzare il sistema bancario, oggi frammentato e pieno di turbolenze; arrivando persino a definirla un attacco alla cooperazione in generale. Una polemica accesa che a molti sembra la difesa esasperata del gruppo di potere centrale, motivato a gestire il cambiamento incidendo il meno possibile sulle inefficienze e sulle debolezze attuali. Queste rappresentate, dalle strutture centrali, dalle tante società prodotto e dalle Federazioni regionali il cui ruolo futuro è nebuloso. Per non parlare delle troppe società che gestiscono l’informatica delle BCC; della storica autonomia delle coop bancarie del nord est e del network CABEL; della presenza nel sistema dei pagamenti della Cassa Centrale trentina accanto all’ICCREA (una delle poche banche italiane “significant” a vigilanza europea).

Mentre il dibattito si incendia su questioni giuridiche e dietrologie politiche, nulla si sa sul piano industriale, sugli oneri di strutture ridondanti e di personale costoso e in esubero (il costo per dipendente delle BCC è più alto della media del sistema bancario e la produttività più bassa per effetto del minor valore medio delle operazioni).

Il Presidente delle BCC a ottobre 2007 dichiarava: “Negli ultimi 12 anni sono state costituite 100 nuove banche locali; vi leggo una voglia di partecipazione civica, di protagonismo imprenditoriale e di una vitalità dei valori. La voglia di nuove banche non può essere di per sé sospetta, comunque negativa, soprattutto in certe aree”. Un disegno opposto a quello che lo stesso si propone (ora giustamente) di perseguire. Che valore dare alle affermazioni di chi fino a ieri festeggiava il proliferare di nuove BCC, la maggior parte delle quali già uscite dal mercato per inefficienze e irregolarità?

Mentre in altri paesi l’integrazione tra BCC procedeva più o meno velocemente in Italia, solo da poco si è avviata una stagione di fusioni sotto la “moral suasion” della Banca d’Italia, fattasi nell’ultimo triennio sempre più pressante.
Prima dell’invito del governo alle BCC di promuovere una auto riforma, dai vertici di Federcasse si continuava a sostenere che “piccolo è bello” e che alle BCC serviva solo un processo di aggregazione, gestito in autonomia, il cui obiettivo finale appena un anno fa era fissato in 250 BCC in luogo delle 400 allora esistenti.

Sembra poco credibile quindi che gli ispiratori della proliferazione delle BCC si propongano alla guida di un gruppo unico. Un gruppo a rilevanza sistemica, ispirato ai vari raggruppamenti cooperativi europei, compreso il più volte citato (anche dal Presidente Renzi) Credit Agricole, che è una SPA controllata dalle Casse regionali, indistinguibile per efficienza, produttività e governance dagli altri grandi conglomerati europei. Senza progetti industriali validi, chi ha gestito (spesso non bene) banche minuscole può proporsi alla guida del potenziale terzo gruppo bancario italiano?

Senza l’azione del Governo, probabilmente nulla sarebbe cambiato. Ricordo che già nella riforma delle Banche popolari, era previsto un provvedimento sulle BCC, accantonato per consentire l’elaborazione dell’auto riforma che oggi è (quasi) legge, ma con davanti due anni di tempo per la sua completa attuazione.

In questi due anni che accadrà? Vinceranno le spinte delle BCC volte a mantenere autonomia, strutture federative, società prodotto e poltrone o prevarrà la ricerca dell’efficienza con scelte (dolorose) di riduzione dei costi, compreso quello del lavoro?

Nell’incertezza bene ha fatto il Governo a prevedere una “way out” sebbene molto pesante e difficilmente attuabile. Almeno si introduce concorrenza, consentendo alle BCC migliori o più audaci di uscire dal sistema, magari aggregandosi fra loro. Tuttavia c’è da chiedersi quanto potranno sentirsi più tutelati i risparmiatori da banche costrette a “buttare dalla finestra” il 20% del loro patrimonio, in un periodo nel quale il patrimonio è tutto. Serviranno soci robusti e motivati a ricostituire almeno la parte di patrimonio oggetto di tassazione.

Anche nel mondo cooperativo solo i migliori e più efficienti potranno restare sul mercato. Per gli altri va preso atto che: “ Your business model is the problem”. Senza efficienza e senza competitività non si può fare banca orientata al profitto e neanche alla mutualità.

Le BCC dopo il 2008 hanno continuato a dar credito a famiglie e piccole imprese. Con ciò sostenendo l’economia, ma nel contempo entrando in crisi per le ingenti sofferenze accumulate e quindi per la riduzione dei loro patrimoni a tutela della solvibilità.

La riforma cambierà pure il rapporto delle BCC col territorio. Al maggiore accentramento decisionale si accompagnerà inevitabilmente una minore concorrenza, attenuando progressivamente l’attuale sovrapposizione di più BCC sulle stesse aree.

Siamo certi che ciò sarà un bene per tutti?

Potremo forzare le BCC più efficienti a condividere il destino con le più deboli?

O non sarebbe meglio far uscire dal mercato le BCC inefficienti prima della completa realizzazione della riforma?

Il tempo per un dibattito c’è ma non è lungo.

Bancor