L’OCSE: la qualità del lavoro conta, ed è peggiorata con la crisi, almeno nel Sud Europa
L’OCSE: la qualità del lavoro conta, ed è peggiorata con la crisi, almeno nel Sud Europa
La crisi economica che ha attanagliato l’Europa dalla fine del 2008 e che sembra essere finita, almeno a osservare il segno delle variazioni dei principali indicatori, ha lasciato ferite che non si riassumono solo nei numeri, perchè la dimensione della crisi è anche qualitativa, non solo quantitativa.
E’ quanto sostiene l’OCSE in uno dei suoi ultimi report in cui analizza, Paese per Paese, non solo e non tanto i tassi di occupazione o disoccupazione, ma la qualità del lavoro, dei guadagni, della sede di lavoro, la disuguaglianza.
Qualità del lavoro crollata in Grecia e Spagna, ma l’Italia viene subito dopo
La fotografia sulla qualità dei guadagni in termini di potere d’acquisto fatta dall’OCSE risale al 2013, e non è poi così negativa per il nostro Paese. Simo a metà classifica, se consideriamo che sono presenti Paesi come Turchia e Messico, e risultiamo in posizione migliore rispetto non solo alla Spagna ma anche a Paesi come Regno Unito e USA, non certo per l’ammontare della paga oraria, che è decisamente più bassa di questi Paesi, ma per la disuguaglianza presente nel mondo anglosassone, minima invece in Italia.
Ai primi posti Paesi scandinavi, Paesi Bassi, Belgio, Germania, che uniscono alti stipendi e bassa disuguaglianza.
Molti in Italia forse non concorderanno con questa valutazione, ma dobbiamo pensare anche al fatto siamo un Paese ancora molto manifatturiero, con contratti collettivi che permettono limitate variazioni, rispetto al mondo anglosassone sono relativamente poche le posizioni nell’ICT e nella finanza dove le differenze nei salari tra le mansioni sono molto più grosse che negli altri settori. Questa bassa disuguaglianza quindi potrebbe avere un sapore agrodolce per noi
E’ però una situazione in movimento, che nel nostro caso pare destinata a peggiorare, negli anni della crisi la qualità è migliorata nella gran parte dei Paesi, ma non in Inghilterra, USA, Grecia, ovviamente, ed Italia, dove il cambiamento c’è stato, minimo, ma in peggio.
Le cose si fanno più negative se includiamo nell’equazione l’insicurezza del lavoro, ovvero il pericolo di perderlo e il grado di copertura assicurativa in caso di disoccupazione, la durata e la generosità del sussidio.
L’Italia qui viene subito dietro Spagna e Grecia, dove conta moltissimo, nel grado di insicurezza, l’andamento dell’economia e l’alta probabilità di perdere il lavoro. Nel caso di altri Paesi come quelli nordici o l’Austria e la Germania oltre a un minore pericolo di rimanere disoccupati vi sono più garanzie assicurative, più alti sussidi e protezione, nonchè formazione professionale, per chi dovesse perdere il lavoro.
Evidentemente in Italia non vi è quella protezione che si pensava ci fosse, anche prima del Jobs Act, sicuramente non vi è per molti lavoratori al di fuori del mondo del tempo indeterminato.
Questo particolare indicatore, l’insicurezza, è quello più peggiorato negli anni della crisi, non solo nei soliti Paesi mediterranei, ma per esempio anche ne Paesi Bassi e in generale ovunque, con la notevole eccezione della Germania e di pochi altri.
E’ probabilmente il lascito più pesante della crisi, ed è particolarmente grave se pensiamo che dal conto sono tolti quei lavori, di solito i più insicuri, che sono stati persi in questi anni.
In teoria si sarebbe potuto pensare che i lavori rimasti, quelli che hanno resistito, fossero quindi più sicuri, ma non è così, c’è stato un cambiamento anche nelle posizioni già esistenti.
Sopra metà classifica l’Italia anche per l’indice del “job strain”, ovvero lo stress o la pressione sul lavoro, risultato di un incrocio di eccessivo carico e peso di lavoro, spesso a causa delle riduzioni di personale, e insufficienti risorse e e mezzi, spesso riguardanti anche la sicurezza, per poterlo svolgere.
Dopo i soliti Grecia e Spagna una serie di Paesi dell’Est e poi l’Italia. Irlanda, Danimarca e Finlandia i Paesi più tranquilli.
In Italia in particolare pesa più che il carico di lavoro, basso, la mancanza di risorse e di supporto.
Da questo punto di vista tra il 2005 e il 2015 vi è da dire che l’ambiente di lavoro è risultato migliorato nel nostro caso, al contrario che nei Paesi nordici, si vede una convergenza che non si scorge altrove.
Qualità del lavoro, meglio non essere donna e giovane, e l’istruzione conta
Ci sono alcune correlazioni che è possibile effettuare con altre dimensioni come età, sesso, istruzione, ed appare chiaro che in generale la qualità dei guadagni è minore per le donne, i giovani e le persone con istruzione più bassa, e in questo caso è l’istruzione quella che più conta nel differenziare la qualità del lavoro da questo punto di vista.
Nel campo dell’insicurezza, quello più negativo per il nostro Paese, le disuguaglianze diventano molto grandi, e colpiscono in particolar modo i giovani, il doppio dei più anziani, e in particolare quelli con bassa istruzione. I giovani hanno contemporaneamente più possibilità di essere licenziati e meno assicurazione contro la disoccupazione, ma è soprattutto la probabilità di essere licenziati che raddoppia in questo caso.
Nel caso invece del “job strain”, è l’istruzione bassa che peggiora di più le condizioni dei lavoratori.
Un’altra correlazione che l’OCSE fa è quella con la mobilità dei lavoratori, sempre più comune con la globalizzazione, e, pare dire l’organizzazione, sempre più inevitabile, visto che pare avere un effetto di riduzione della disuguaglianza, almeno in alcuni Paesi come la Spagna o la Grecia, o la Germania.
Non è quindi vero, dice l’OCSE, che una maggiore flessibilità di lavoro, il passaggio da un impiego ad un altro peggiora l’uguaglianza, anzi. Certamente in alcuni Paesi è sinonimo di maggiore incertezza, ma in alcune realtà più statiche, come il nostro Paese, almeno in giovane età può significare un tentativo di raggiungimento di migliori stipendi, spesso ottenibili solo cambiando azienda, come succede appunto nelle realtà di multinazionali, aziende di consulenza, e simili.
La strada appare lunga per il nostro Paese anche perchè una peggiore qualità del lavoro non serve, o comunque non basta ad aumentare il valore assoluto dei posti di lavoro, sicuramente non nel lungo periodo. C’è una correlazione positiva tra qualità e protezione del lavoro e tasso di occupazione.
Qualcuno potrebbe illudersi che basti rendere il lavoro più flessibile, e limitare alcuni eccessi dei vecchi statuti dei lavoratori, ma in generale alla fine è in realtà la produttività dell’economia, il valore aggiunto dei prodotti a determinare sia la possibilità di creare posti di lavoro sia il salario raggiungibile con questi sia la loro qualità.
I Paesi in cui vi sia più industria ICT o più finanza, più multinazionali che piccole imprese avranno una qualità di lavoro migliore a prescindere dagli altri fattori.