Diritti Usa: l’aborto ancora un tabù

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Diritti Usa: è di nuovo il Texas ad essere sotto i riflettori della politica americana. A giugno è prevista infatti la sentenza della corte suprema per il caso Whole Woman’s Health contro Hellerstedt. Il 2 marzo infatti si sarebbero dovute esaminare alcune norme redatte per rendere più sicure le cliniche dove si praticano aborti, ma in realtà sembrano piuttosto desiderose di interromperne l’attività. Il problema non è se l’aborto sia o meno legale, quanto piuttosto: quanto lo si può rendere complicato?

Diritti Usa: l’aborto ancora un tabù

Il 13 febbraio scorso è deceduto il giudice Antonin Scalia e con lui è venuta a mancare una delle voci della corte suprema che più si opponeva alla sentenza del Caso Roe.

Noto anche come “Caso Roe vs Wade”, è stato uno dei casi giudiziari più controversi del ventesimo secolo che aveva come protagonista Norma McCorvey (con lo pseudonimo di Jane Roe). Nel 1970 l’allora ventiduenne Norma fece ricorso contro una legge del Texas che le impediva di fatto di praticare l’aborto. La Roe cambiò poi idea, diventò una delle maggiori attiviste anti-aborto ma vinse comunque la causa nel 1973 con sette voti favorevoli e due contrari. La giuria ritenne che il quattordicesimo emendamento in termini di libertà e privacy personali comprendesse anche l’interruzione di gravidanza. Una sentenza che fece epoca.

Il giudice Harry Blackmun, a seguito della sentenza, aveva stabilito che nelle prime tredici settimane di gestazione la donna può abortire senza che lo Stato glielo impedisca. La teoria dei trimestri che venne assunta come “prospetto comportamentale” prevedeva che: nelle prime tredici settimane si potesse abortire senza limitazioni, fino alla ventisettesima solo in caso di ragionevole pericolo per la salute delle donne e nelle settimane finali, lo Stato può impedire quasi in toto l’interruzione di gravidanza, a meno che ovviamente non sia in pericolo la vita o la salute della donna. Una teoria questa che venne abbandonata nel 1992 dopo la sentenza “Planned parenthood vs Casey” per cui si adottò come criterio la “vitalità” del feto, cioè l’autonomia fetale al di fuori dell’utero materno. Questo fece sì che l’aborto non si potesse praticare oltre il terzo mese di gestazione.

Comportamenti sessuali responsabili uniti alla facilità nel reperire anticoncezionali hanno fatto sì che il numero di aborti scendesse da 1,6 milioni nel 1990 a 983mila nel 2013. Ciò che preoccupa è che questa sentenza potrebbe andare a limitare notevolmente la libertà e l’autonomia della donna di scegliere sul proprio corpo. Secondo dati del Gluttmacher Institute per la difesa del diritto all’aborto, oggi gli stati che negli Usa risultano essere ostili alla pratica abortiva sono 27 di cui 18 “fortemente ostili”. Un dato che meno di vent’anni fa era dimezzato e che rischia di spingere le donne verso pratiche illegali e pericolose.

Federica Albano