Crisi economica, lo shopping di aziende dei cugini francesi in Italia
L’ultimo caso, forse tra i più eclatanti, è quello di Vivendi che potrebbe mettere fine all’epopea della famiglia Berlusconi così come l’abbiamo vista e immaginata finora, una storia di successo imprenditoriale.
Sono solo voci, ma quello che è certo è che il gruppo media francese guidato da Bollorè sarebbe in trattative per acquisire l’89% di Mediaset Pemium, la pay tv del biscione che da 2007 non ha mai fatto utile. Insieme a Vivendi che già controlla il colosso Canal+ l’obiettivo sarebbe di contrastare efficacemente Sky e, ora, Netflix, players che appaiono imbattibili sul mercato.
La guida, però sarebbe francese. Inevitabili quindi le voci su un interesse di Vivendi anche su tutta Mediaset, per ora smentite.
Vivendi ha anche una partecipazione crescente in Telecom, salita a tappe al 24%, un passo sotto la soglia del 25% che farebbe scattare un’OPA obbligatoria. Il risultato sono state le dimissioni di Patuano, per la volontà di Bollorè di imporre un cambiamento di governance che si concretizzerà con la scelta del nuovo AD.
Di fatto anche se con solo il 24%, come succede in molti casi di grandi aziende in cui il controllo è nelle mani di una minoranza di blocco, sono i francesi a comandare nella principale azienda di telecomunicazioni italiana.
Crisi economica ha favorito le acquisizioni francesi, da Lactalis al lusso
Non solo media, anzi, finora il terreno di caccia dei Transalpini in Italia era stato soprattutto nel campo del food e del lusso.
Lactalis dal 2003 ha acquisito Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori e nel 2011 Parmalat da Enrico Bondi, che aveva salvato l’azienda dopo la gestione folle di Calisto Tanzi. Erano stata tante le promesse di investimenti, ma la realtà è stata più amara. Il 10% delle stalle ha dovuto chiudere negli ultimi anni a causa del crollo del prezzo pagato da Parmalat per il latte, un calo del 20% deciso unilateralmente che mette in ginocchio molti allevatori. L’alternativa al latte italiano del resto c’è, sono le importazioni dall’estero, e così il monopsonio di Parmalat diventa ancora più un macigno.
Pinault, il re del lusso, è il CEO di Kering, che negli anni,a parte puntate nello sport come nella tedesca Puma, si è concentrata nel lusso. E quale Paese, oltre la Francia, è protagonista in questo campo? Il Belpaese naturalmente.
E così a fine anni ’90 acquisisce il 42% del gruppo Gucci, nel 2001 è la volta di Bottega Veneta, oltre che di una salita nelle quote possedute in Gucci.
La corsa continua con l’ausilio della crisi, che abbatte i prezzi di acquisizione di aziende in crisi, così nel 2013 Gucci, ora nelle mani di Pinault, acquisisce la fiorentina Richard Ginori per solo 13 milioni, e lo stesso anno Kering compra Pomellato, con un’operazione di 350 milioni.
L’altro grande gruppo del lusso francese è LVMH, che nel 2013 ha comprato Loro Piana per 2 miliardi, e pare proprio che il CEO Arnault faccia a gara con il connazionale Pinault nello shopping in Italia. E’ lo stesso che nel 2011 aveva messo a segno una delle acquisizioni più grosse, quella di Bulgari per 4,2 miliardi.
Non solo lusso però, nel 2000 Fiat decide di tirarsi fuori dal settore ferroviario e vende Fiat Ferroviaria ad Alstom che oggi produce tra gli altri treni per Italo a Savigliano, in provincia di Cuneo, ma è in mano francese.
Edison, fondata nel 1884, uno dei produttori più antichi di energia in Italia è stato acquisito da EDF, Electricitè de France nel 2012, dopo un’acquisizione parziale nel 2005.
Quella stessa Edf che si è fusa con Gaz de France, la società che il governo francese, con un pesante interventismo, ha impedito fosse comprata da Enel.
Acquisizioni positive, ma fatte quasi solo da stranieri, il problema del nanismo italiano
Queste acquisizioni non sono sempre negative per l’economia italiana, per esempio Gucci nel 2015 ha aumentato il fatturato del 15% (+0,4% normalizzando per il cambio), mentre Bottega Veneta ha visto un progresso del 13,7% nel fatturato e del 17,3% nel risultato operativo, nonostante un ultimo trimestre negativo.
Più in generale secondo Prometeia dalla fine degli anni ’90 al 2014 il fatturato delle aziende italiane acquisite da multinazionali straniere è salito del 2,8% l’anno in media, ben più della media dell’economia del nostro Paese, l’occupazione del 2%, la produttività del 1,4%. Le multinazionali hanno aperto nuovi mercati prima troppo difficili da raggiungere, soprattutto nei Paesi emergenti, hanno portato capitali per acquisire tecnologie, materiali e processi più produttivi, che uniti al know how italiano, molto apprezzato all’estero, hanno creato sinergie senz’altro positive.
E però allora sorge l’interrogativo sul perchè questo tuttavia non avvenga in modo reciproco, perchè, se è vero che medie aziende familiari nel lusso, food, arredamento o meccanica non possono da sole resistere alla globalizzazione e alle sue crisi, non sono nati gruppi, aggregazioni e grandi multinazionali italiane a fare il lavoro di Kering e Pinault.
Certo, esempi positivi non mancano, anche se spesso fanno molto meno notizia, per esempio Buzzi Unicem che acquisisce Uralcement, russa, per 104 milioni, o Ima, del settore packaging de cibo, che ha comprato 5 aziende tedesche del settore per un fatturato totale di 185 milioni.
E ancora Amplifon che ha acuisito un’azienda brasiliana e una israeliana nella propria nicchia di mercato, Campari che dopo molte altre acquisizioni ha comprato ora anche Grand Marnier, Ferrero ha pagato 157 milioni per l’inglese Thorntons, la veneta Inglass ha poi acquisito proprio un’azienda francese per 25 milioni, la Ermo, nel campo degli stampi multicavità ad alta precisione.
Lavazza poi che ha comprato Carte Noire per 700 milioni
E però le proporzioni sono diverse, acquisizioni di alcune decine o centinaia di milioni contro quelle di alcuni miliardi, basti pensare a Bulgari.
Tornando alla Francia i rapporti economici con l’Italia sono sempre stati strettissimi, ma mentre gli investimenti italiani in Francia sono aumentati in media del 2% annuo fino a 18 miliardi attuali, quelli francesi in Italia sono saliti del 12% annuo e ora ammontano a 46 miliardi.
Non vi è paragone, nonostante le differenze in termini di PIL siano decisamente minori.
In Italia manca un modello, ben presente in Francia e Germania, che vede le piccole e medie imprese fare da indotto e costituire la filiera per prodotti che poi terminano in grandi gruppi che si occupano di produzioni di massa alimentando il lavoro di piccole e medie aziende di nicchia o dalla grande tradizione, che però non sono isolate, come troppo spesso accade nel nostro Paese.