Probabilmente Giovanni Pascoli avrebbe definito il fluire distorto del nero petrolio con quel “tacito tumulto” che, meglio di ogni altra figura retorica, rendeva al lettore l’intima essenza del lampo di luce. Pasolini ne fece un paradigma letterario incompiuto, ma fermiamoci qui. Mentre in Italia le vicende tentacolari relative agli stabilimenti di Tempa Rossa fanno da enorme cassa di risonanza per un venturo referendum semisconosciuto ai più fino a poco tempo fa, l’ossimoro reale dei mercati delle materie prime, che in questi mesi ha caratterizzato buona parte dell’andamento dell’economia globale, si palesa cristallino nelle ultime asserzioni di uno dei grandi Paesi produttori di greggio per eccellenza: l’Arabia Saudita.
Petrolio: Riyadh, il bastone e la carota
Sono giunte in questi giorni le dichiarazioni del principe Mohammed bin Salman, non proprio l’ultimo arrivato nelle gerarchie di potere della monarchia sunnita. Egli è infatti il figlio dell’attuale re, secondo in linea di successione dinastica al trono e ministro della Difesa. Sovrintende inoltre, all’interno di una ristretta cerchia, l’organizzazione del Consiglio per gli affari economici e lo sviluppo, il quale gli garantisce importanti deleghe esecutive per ciò che concerne i ministeri delle Finanze e del Petrolio.
In una lunga intervista rilasciata a Bloomberg, il principe ha dettato le linee guida delle prossime oscillazioni di commercio e mercato del greggio. Lo ha fatto senza lasciare adito a dubbi, facendo il bello e il cattivo tempo, dimostrando d’aver piena coscienza del suo ruolo decisivo di market mover: “Se tutti i Paesi, compresi Iran, Russia, Venezuela, membri dell’Opec e tutti i principali produttori decideranno di congelare la produzione, saremo con loro. Tuttavia, se ci sarà qualcuno che deciderà di aumentare la sua produzione, allora non respingeremo nessuna opportunità”. La strategia in vista del prossimo vertice dell’Opec a Doha, previsto per il 17 aprile, è evidente: Riyadh, nelle intricate vicende del petrolio e dei relativi anemici prezzi, 38 miserandi dollari al barile sia per il WTI che per il Brent, possiede ancora sia il bastone che la carota, e li utilizza con arguzia.
Petrolio: Europa, Asia e Vicino Oriente
In vista del 17 aprile, oltre all’ipercinetica Arabia Saudita, altre importanti potenze emergenti dell’economia globale hanno dimostrato un significativo movimento di scambio nelle proprie politiche energetiche di produzione. La Russia, in marzo, ha incrementato le proprie estrazioni di petrolio dello 0,3 per cento rispetto al mese precedente e del 2,1 % rispetto all’anno prima. Inoltre, la produzione totale di barili si è attestata, in aumento rispetto agli ultimi rilevamenti statistici, a 10,91 milioni al dì.
Parallelamente fonti vicine al governo di Teheran hanno confermato senza troppe remore la volontà, da parte della Repubblica Islamica dell’Iran, di voler raggiungere nuovamente i livelli di produzione antecedenti alle sanzioni commerciali, dissolte grazie ai recenti accordi di Vienna.
Sembrerebbe, da tutto ciò, potersi allontanare allora la possibilità di un accordo multilaterale che preveda il congelamento delle produzioni per un ristagno dell’offerta, eccessiva, a fronte di una domanda inconsistente. I prossimi giorni saranno decisivi per una più chiara percezione degli equilibri in gioco. In ultimo l’Europa: il Vecchio continente non può infatti dirsi avulso dalle dinamiche di mercato dell’oro nero. Il prezzo favorevole del petrolio si è fino ad oggi dimostrato, insieme alle politiche dei tassi d’interesse bassi favorite dall’acquisto dei titoli di Stato da parte della Banca centrale europea ed al valore della valuta accomodante, una delle tre variabili esogene necessarie per invertire il ciclo recessivo innestato dall’ultima crisi economica.
L’Italia, secondo i dati diffusi dal ministero dello Sviluppo economico, ha visto aumentare nel 2015 la domanda di greggio del 3,6 % arrivando a 59,7 milioni di tonnellate, dimostrando un vivo legame di sopravvivenza economica con lo sfruttamento dell’energia fossile, in un territorio totalmente privo di centrali per la produzione di energia nucleare. Eppure, i prezzi bassi del petrolio, fino ad oggi, non hanno mutuato quel volano propulsivo di crescita e sviluppo consistente che l’Occidente si aspettava: un vero e proprio ossimoro di concetto.
Riccardo Piazza