Un semplice principio della fisica, (l’isteresi), stabilisce che un elastico sottoposto a sforzo di tensione riesce a mantenere, per un dato margine di tempo, le nuove forme artificialmente imposte senza rompersi. Naturalmente tutto ha un limite, il limite è rappresentato dalle forze. Se tali gravami diventano insopportabili si giunge ad un punto di rottura ed ecco che l’elastico si spezza. Le pensioni italiane di oggi sono ben rappresentate da tale fenomenologia ed il loro punto di rottura, stando alle ultime previsioni macroeconomiche suffragate da studi di settore, confrontati dal quotidiano La Stampa, sarebbe cronologicamente vicino: precisamente nel 2030.
Pensioni: la variabile della crescita
Il sistema delle pensioni italiano, un ibrido elefantiaco di spesa pubblica pasciuto e cresciuto di 3,1 miliardi nell’ultimo anno secondo la Cgia di Mestre, a cavallo tra le prassi retributive e quelle contributive, risente già oggi di alcuni indici endogeni del pubblico bilancio statale. Innanzitutto degli attuali livelli di crescita e sviluppo, per intenderci il Pil: questi ultimi, sono stati recentemente calcolati dal ministero del Tesoro all’interno dell’ultimo Documento di economia e finanza (DEF), e fissati in visione tendenziale allo 0,8 per cento per l’anno 2015 ed all’1,2% per il 2016.
Il presidente dell’Istituto di previdenza nazionale Tito Boeri ha dato avvio, tra diffidenze ed atteggiamenti guardinghi da parte del corpus dei contribuenti, ai nuovi prospetti contenenti gli schemi delle pensioni italiane: le cosiddette Buste arancioni. Tali tabelle consentono al lavoratore di poter calcolare la pensione futura, secondo alcune variabili note: tali variabili riguardano il tasso di crescita dall’Inps dato per implicito sulla base dell’1,5% all’interno della prima opzione e sulla base dell’1% nella seconda. Tuttavia, come abbiamo appena mostrato, nessuna soglia derivante da una base marginale di Pil come quella data per assunta dall’Istituto di previdenza può realizzarsi, rebus sic stantibus, in Italia.
Pensioni: dalla generazione d’oro alla legge Fornero
Se il punto di rottura tra costi del servizio di previdenza e crescita economica dovesse essere davvero il 2030, con i livelli di produzione odierni, servirà un vero e proprio nuovo boom economico per garantire un sistema pensionistico a tutti i nuovi lavoratori.
Quanto sembrano lontani i tempi della generazione d’oro figlia di quel “biennio magico”, 1964 – 1965, il quale toccò l’acme della demografia italiana con oltre un milione di nuovi nati in pieno regime di sviluppo industriale. Oggi i dati dell’Istat danno conto di un tessuto sociale in costante invecchiamento: al primo gennaio 2015, in Italia, vi erano 157,7 anziani ogni 100 giovani ed il processo non sembra subire alcun rallentamento.
Il paradigma della legge Fornero ha innalzato le soglie dell’età pensionabile creando un difficile ricambio nelle già povere dinamiche delle nuove assunzioni. Proprio i lavoratori appartenenti a quel fatidico biennio, stando alle ultime infelici analisi formulate, potrebbero essere in futuro il detonatore per l’implosione del nostro sistema delle pensioni, definitivamente vinto, per saturazione, da un eccesso di domanda a fronte di un deficit di risorse per la gestione degli assegni da erogare.
Un rimedio per alleggerire l’attuale fardello potrebbe essere la rinnovata flessibilità in uscita. Allo stato dell’arte, due le proposte di merito: la prima, formulata dallo stesso presidente dell’Inps Boeri, prevede una uscita dal lavoro dai 63 anni e 7 mesi con disincentivi e decurtazione massima del 9% da applicarsi soltanto alla quota retributiva. Per le coperture di tale manovra, Boeri ha proposto un contributo di solidarietà da applicare sugli emolumenti pensionistici più alti. Il secondo progetto, messo in luce dal presidente della commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano, propone invece una uscita a 62 anni e 7 mesi con un taglio del 2% l’anno fino ad un tetto massimo dell’8%.
Riccardo Piazza