Concordo in pieno con questo post:
È primavera e a scuola sbocciano i test Invalsi. Con essi torna il monito a non muovere critiche che non siano costruttive. Pur attenendosi al precetto si constata, anche quest’anno, una miscela di test ragionevoli e di altri che suscitano dubbi circa le competenze di chi l’ha pensati. La via del miglioramento è lunga, soprattutto se le critiche saranno ancora ignorate. Ma resta aperta la domanda: per andare dove? Cosa può dare l’analisi dello stato dell’istruzione mediante test, pur al massimo delle sue possibilità?
La domanda è resa impellente dal torrente polemico che si rovescia sul più famoso sistema internazionale di valutazione mediante test, OCSE-Pisa, noto in Italia per averci sempre posto al fondo delle classifiche. Nelle ultime rilevazioni aveva suscitato stupore la schiacciante superiorità della Cina, poi spiegata dal fatto che ai test avevano partecipato le migliori scuole del distretto di Shangai. Aveva destato sorpresa l’inatteso crollo della Finlandia, da sempre ai primi posti. Qualche anno fa avevamo indicato che, per ammissione di autorevoli personalità di quel paese, l’insegnamento della matematica era stato stravolto in funzione del successo nei test OCSE-Pisa, il che lasciava prevedere che fluttuazioni nelle modalità dei test avrebbero potuto cambiare i risultati. Ora si viene a sapere qualcosa di molto più grave: solo il 10% degli studenti dei vari paesi sostiene effettivamente i test di lettura Pisa, mentre gli altri entrano nelle statistiche simulando le risposte mancanti con numeri casuali… Ne è nata una polemica furiosa in cui la difesa ha opposto che questa è una prassi usuale in statistica, mentre uno statistico di fama come David Spiegelhalter ha sostenuto che i metodi usati sono sbagliati e che «ricavare lezioni da Pisa è difficile quanto prevedere chi vincerà una partita di calcio».
Ora, una lettera firmata da un stuolo di autorevoli personalità a livello internazionale (pubblicata sul Guardian col titolo “I test OCSE-Pisa stanno danneggiando l’educazione in tutto il mondo”) contesta il metodo dei test al di là delle questioni tecniche. Difatti, gli articoli di critica tecnica pullulano, ma gli enti di valutazione fanno orecchie da mercante. Per esempio, il nostro Invalsi considera come Verbo un modello matematico largamente criticato e di cui recenti ricerche indicano l’inapplicabilità proprio ai test usati nel 2009 per le scuole medie. L’appello internazionale considera inammissibile alla radice l’idea di costruire un intero sistema di valutazione sui test e mette in luce i guasti che sta producendo questa prassi.
La lettera critica la credenza feticistica nei numeri che fa trascurare qualità fondamentali, come quelle morali, civiche o artistiche (e aggiungiamo noi, anche le competenze scientifiche e letterarie, che non sono riducibili a numeri). Denuncia lo spostamento d’attenzione sul breve termine, mentre solidi miglioramenti nella qualità dell’istruzione e dell’insegnamento richiedono decenni. Denuncia una visione angustamente economicista che cancella il fatto che l’istruzione non forma solo forza-lavoro ma soggetti capaci di partecipare a una società democratica, all’azione morale e a una vita di crescita personale; per cui, per molti versi, inclusa la disastrosa tendenza a bandire la conoscenza dall’istruzione, compromette il futuro della democrazia. Questa tendenza tecnocratica è manifestata dal fatto che l’istruzione sta diventando terreno riservato a economisti, statistici e psicometrici, escludendo soggetti che non hanno minori diritti a “sedersi al tavolo”: insegnanti, educatori, studiosi disciplinari di ogni sorta, famiglie, studenti, amministratori. Infine, il ciclo continuo di testing produce un clima nevrotico nelle scuole e, sostituendo l’insegnamento con l’addestramento, «uccide la gioia di apprendere». Tra le molte altre osservazioni ne ricordiamo una fondamentale: «misurare grandi diversità di tradizioni educative con un criterio unico, ristretto e parziale, può danneggiare irreparabilmente i nostri studenti e le nostre scuole».
Siamo di fronte a un documento che ha un valore cruciale, particolarmente importante per un paese come l’Italia che sta costruendo il suo sistema di valutazione. E va respinto il solito ammonimento, che già si sente avanzare: chi critica non vuole la valutazione. Anche il ministro Giannini, nel corso di recenti dichiarazioni, su altri aspetti condivisibili, ha ricondotto le critiche alla tendenza a dire: “bene la valutazione, ma non nel mio cortile”. Che vi sia chi ragiona così è indubbio. Ma riprovarlo non implica chiudere la bocca a chi non difende cortili, vuole la valutazione, propone altri modelli – per esempio, basati su metodi ispettivi – ma non accetta qualsiasi cosa a scatola chiusa, tantomeno il feticcio dei test, ancor meno se si prospetta di usare i test Invalsi anche per valutare gli insegnanti.
Nelle sue dichiarazioni, il ministro ha osservato che, come un buon medico si valuta se i suoi malati guariscono o restano in buona salute, così l’insegnante si valuta dal risultato del processo di apprendimento. Ma già qui non ci siamo. Perché quel che fa la differenza è l’oggetto: altrimenti, i peggiori medici sarebbero gli oncologi e i migliori quelli che curano i raffreddori. Inoltre, i concetti di salute e malattie sono tutt’altro che univoci. Un medico molto meccanicista può ritenere che lo stato di salute corrisponda al rigoroso rientro in certi parametri, mentre un altro può ritenere che talora la “guarigione” consista nell’assestarsi su stati “anomali” ma corrispondenti a una nuova norma avente caratteristiche di stabilità. Ciò è materia di dibattito scientifico e valutare un medico è cosa molto più complessa che non fare test sull’evoluzione dello stato dei suoi pazienti. Lo stesso dicasi per gli insegnanti: la bravura di un insegnante può essere offuscata da un contesto difficile mentre può rifulgere la mediocre qualità di un insegnante che opera in un contesto facile. Né la qualità degli apprendimenti è riflessa, se non a livelli minimali, dalle prestazioni nei test. Del resto, se il ministro ha accolto l’idea di sostituire i test d’ingresso a medicina con un modello di tipo francese, in cui la selezione viene fatta con esami di merito dopo un anno, non può ritenere che i testi possano servire a valutare il sistema dell’istruzione, gli studenti e addirittura gli insegnanti. Qualche forma di testing elementare può servire, purché a dosi omeopatiche, impedendo qualsiasi sostituzione dell’insegnamento ordinario con l’addestramento ai test, e combattendo l’affarismo sui manuali di addestramento. Ma ridurre la complessità della problematica dell’istruzione alle crocette è inaccettabile. Curiosi tempi i nostri, in cui si straparla di “complessità” e poi si pretende di ridurre tutto a schemini semplici; in cui chi non è relativista è un arnese del passato, e poi si pretende di raggiungere l’oggettività assoluta nella valutazione. Un sistema di valutazione efficace deve valorizzare pienamente l’aspetto umano e culturale, e quindi non può basarsi altro che su metodi di ispezione incrociata interni al sistema (lontani dal vecchio sistema ispettivo ministeriale) di cui esistono molti modelli che possono essere studiati e articolati nei dettagli. L’appello internazionale chiama ad affrontare con coraggio e senza conformismi questa tematica, offrendo al nostro paese l’opportunità di evitare vie schematiche che hanno prodotto altrove pessimi risultati. Non a caso, l’appello è nato nel mondo anglosassone, dove il feticcio del “testing” e dell’‘accountability” quantitativa ha prodotto dissesti tali da spaccare in modo drammatico il mondo dell’educazione.